Si resta schiacciati su questa realtà cercando di rimanere giovani esteriormente, fino a riempire di plastica il nostro corpo e divenire sempre più finti e patetici. Al contempo si è sempre più incapaci di guardarsi dentro, forse perché quello che c’è non piace.
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Ci si sente tristi, spesso vittime del male oscuro della depressione. In balia di eventi che travolgono e di cui non si conoscono le regole o il fine. Ci si sente soli, perché le traiettorie frenetiche delle vite individuali faticano a istaurare relazioni significative. La tragicità di questa condizione umana va rintracciata, forse, proprio nella superficialità affettiva e relazionale che porta spesso a chiudersi all’altro, a cercare il proprio soddisfacimento personale, incuranti delle conseguenze che le proprie azioni possono avere sugli altri, sul bene comune, sulle future generazioni.
Si è sostituita la fiducia con la diffidenza; i legami con l’isolamento; la lucidità e il coraggio della ragione con il conformismo e la sonnolenza intellettuale; la vitalità della coscienza con l’adattamento e l’indifferenza.
Troppo frequentemente si scelgono le compagnie e le relazioni sulla base dell’utile. E parimenti si è scelti non per quello che si è ma per quello che si può dare. Sono strumentali i sorrisi che ci si rivolge e le persone sono spesso usate e buttate via quando non servono più.
Si è presi in considerazione per come si appare, per ciò che si ha. Non importa come si è fatto ad averlo. Non importano le doti etiche, la correttezza, la professionalità. In questo mondo alla rovescia vale di più camminare borderline rispetto alla legalità. L’importante è “riuscire”, “ottenere”. Non ci si domanda cosa si sta sacrificando.
Questa condizione è esito di una scelta, non ci si può assolvere asserendo di esserne vittime. Abbiamo scelto la logica mercantile per cui la nostra capacità di acquisto e di consumo (ma anche di essere “acquistati” e “consumati”) è la misura del nostro valore sociale. Abbiamo scelto di sottrarre centralità alla “persona” lasciandoci sopraffare dal mondo degli oggetti. Abbiamo lasciato, invece, che ciò da cui potrebbe derivare un profondo appagamento dell’animo fosse etichettato come vano, inutile, antico.
I poveri sono, in quest’ottica, emarginati perché hanno fallito. Loro sì, vere vittime di una folla di individui che li ha calpestati e relegati ai margini. Pensiamo alla sorte dei migranti e dei tanti profughi che chiedono di entrare nel nostro Paese. Di loro non ci si cura. Sono rimossi dall’orizzonte limitato e contingente delle coscienze.
Infastidiscono con la loro presenza. Per loro solo una breve commiserazione per l’eventuale notizia passata fugacemente in televisione. Poi subito si torna alla propria quotidianità, senza fermarsi a riflettere, senza chiedersi concretamente come agire per cambiare la situazione. Si “osservano” con distacco anche i misfatti più gravi, come vaccinati ormai nei confronti del peggio. La superficialità di analisi dinanzi a tutto questo è forse un meccanismo di difesa per fuggire dalle nostre responsabilità individuali e non vedere il “vuoto” in cui stiamo precipitando. Così ci si adatta a inserirsi nei meccanismi sempre più patologici del vivere sociale per attraversare «ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana». Si sopravvive piuttosto che vivere. Come dice H. Arendt, «nel processo di miglioramento del mondo, tutti abbiamo dimenticato cosa significa vivere».
È su questa frase che potremmo riflettere in questa Pasqua, alla luce del sacrificio di vita e riconciliazione che celebriamo tutti insieme, perché stiamo smarrendo il senso ultimo della vita, che solo può dare linfa ad una resistenza etica alla morte della gratuità.
Cosa ci resta della nostra vita? Come diamo concretezza a quel Vangelo che contempliamo in questi giorni. Quale è il messaggio che vivifica i nostri cuori?
Potrebbe essere liberante ridare valore alle “radici”, a quel “giardino” dove è accaduto un evento sconvolgente: la vittoria sulla morte. E là, accanto al Risorto e da Lui “chiamati”, si potrebbe scoprire che la nostra vita è dotata di senso. E che alla sua origine non sta il caso, ma un atto che le dà significato e valore. E là si potrebbe riscoprire che abbiamo una dignità che nessuno può umiliare e calpestare.
La Parola del Risorto ha la forma di un appello. La luce di quella Parola chiama alla responsabilità; incoraggia a vivere il proprio tempo “a testa alta” senza essere schiavi di quella mediocrità che annulla la prospettiva di un’umanità più armoniosa.
Sapersi “dentro” una vita chiamata alla luce riempie il cuore, ci si desta dalla sonnolenza e si libera la coscienza dall’assopimento. Solo allora si impara a “distinguere” e non ci si lascia confondere da chi ci vuole schiavi della morte.
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