IL PASTORE
E IL MERCENARIO
di Fausto Bertinotti
IV Domenica di Pasqua, Anno B 7 Maggio 2006 . ( da Adista: Omelia Fuoritempio )
Vangelo di Giovanni ( 10,11-18 )
Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio».
È nota l’importanza teologica di questo passo. La fortuna anche iconografica della figura del buon pastore. Ma vorrei provare a dare a questo passo una lettura diversa, forse un po’ eccentrica.
Da una parte sta il buon pastore, dall’altra il mercenario. Intanto, ci dice il passo, “il mercenario non è pastore”. La differenza tra i due non è una differenza di attività, una differenza accessoria, la differenza è ontologica. “Io sono il buon pastore […], il mercenario non è pastore”. Il pastore è come una vita sola con le pecore: “Dà la sua vita per le pecore”. Il rapporto tra pastore e pecore è un rapporto non scindibile, l’uno è parte delle altre, il rapporto si gioca al livello dell’essere. Al mercenario “non importa delle pecore”. La sua sorte è separata e opposta alle pecore: quando arriva il lupo, il suo rapporto di mero sfruttamento con le pecore, il suo rapporto utilitaristico, si interrompe, le loro sorti si separano, egli ha il suo guadagno, e che le pecore periscano non è affare suo.
Il rapporto del pastore con le pecore, invece, è ancor meglio precisato al versetto 14: “conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Quello che qui si mostra, quello che fa da sostrato all’interpretazione teologica della parabola, è una realtà altrettanto importante. Anzi, l’interpretazione teologica è possibile proprio in quanto si basa su un’esperienza. L’esperienza del rapporto tra l’uomo ed il mondo che lo circonda, si direbbe oggi l’ambiente, ma io preferisco mondo. Il pastore è l’uomo che riconosce l’assenza di cesura tra sé e il mondo. E questa mancanza di cesura, questa non separabilità è riconosciuta come originaria ed autentica. È un uomo che sa la sua sorte essere strettamente legata alla sorte del mondo. Egli vive se le pecore vivono, egli conosce questo ambiente come suo ed esso lo riconosce come parte: tra questo uomo ed il mondo non c’è estraneità, ma reciproca conoscenza.
Conoscenza così completa che permette ed anticipa la conoscenza delle cose ultramondane: “come il Padre conosce me ed io conosco il Padre”. Questa intimità con l’ambiente circostante è originaria e consente come tale, perché è della stessa natura, l’apertura verso l’Altro.
Il mercenario invece ha con il mondo (le pecore) un rapporto di estraneità. Il suo mondo è il mondo delle cose che si comprano e che si vendono. È un mondo sfruttato e da cui si trae guadagno immediato, ma in questo guadagno è già iscritta la rovina sia del mercenario che del mondo. Arriva il lupo. Irrompe la realtà che denuncia il rapporto reificato. Le pecore si disperdono, il mercenario fugge. Non c’è scampo, né per il mercenario, né per le pecore. La reciproca estraneità porta alla distruzione e alla perdita di soggetto e contesto.
Il rapporto originario, invece, di pastore e pecore, di soggetto e ambiente consente l’apertura verso l’Altro, e con questo – attraverso di questo – anche il rapporto verso gli altri. [16] “E ho altre pecore che non sono di quest’ovile. Anch’esse io devo guidare, ascolteranno la mia voce e saranno un solo gregge, un solo pastore”. Solo per l’uomo non separato dal mondo, per l’uomo non-merce, è possibile il rapporto con gli altri. L’altro gregge, il vicino. Gli altri sono interessanti tanto quanto il sé e il suo gregge. E questo rapporto si presenta non come un rapporto di conquista ma di dialogo: “ascolteranno la mia voce”. Il pastore parla e gli altri rispondono alla parola, si mettono in ascolto. Fuori dal mondo mercificato, il dialogo tra diversi è possibile ed è possibile l’ascolto reciproco. Un ascolto che si fa rapporto, ma mai conquista perché non solo si dice “saranno un solo gregge”, ma anche “un solo pastore”. Un rapporto che prevede che non ci sia un includente ed un incluso. Un inculturante ed un inculturato. Lo scambio è paritario. Non si dice “ci sarà un solo pastore”, un conquistatore o un signore, ma “saranno un solo pastore”. Un umanesimo che non si fonda su un’idea precostituita di umanità ma su un’unità originaria di parola e ascolto.
E qui l’ultima, enorme, conseguenza di questo essere immediati nel mondo. La morte. Il pastore e le pecore sono legati in un destino indissolubile. Fino alla morte, perfino nella morte. Ma essa non è più elemento estraneo. [Gv 18] “[La vita] nessuno me la toglie, ma io la do da me stesso. Ho il potere di darla e ho il potere di riprenderla”. Questo versetto, letto su un piano completamente umano, è il perfetto completamento del ragionamento fatto sopra. La morte stessa, in un’ontologia di non-separatezza, è evento naturale di cui l’uomo diviene soggetto e non oggetto passivo. La morte e la vita sono nella natura del soggetto, sono sorte che lega uomo e mondo. Il potere stesso “di darla” non è la forza prometeica del mercenario che sfida e sfrutta il mondo alla ricerca spasmodica di una maschera d’immor-talità, ma energia creativa e accettazione dell’ordine naturale: “questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”.
* segretario nazionale
del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea
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