Da anni mi trovo a vivere in una posizione di confine. Non ho avuto, in famiglia, un’educazione cattolica, anzi, provengo da un ambiente ateo, anticlericale e massone, ma avendo una natura inquieta, nel corso della mia vita, ho fatto un lungo cammino spirituale che mi ha riavvicinato al Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo. Non è stato un cammino lineare né sempre luminoso, la via interiore, infatti, è un continuo confronto con il male. Se la mia fede esiste — e resiste — è perché continuo a studiare, a leggere, a interrogarmi e ad accettare anche giorni in cui mi sembra di non credere.
Negli ultimi dieci anni molte altre persone della mia generazione hanno intrapreso un percorso simile, lasciandosi alle spalle ideologie politiche, new age e vari movimenti orientali per tornare alla fede del Vangelo ma, nella maggior parte dei casi, questi figli prodighi non hanno trovato nessun padre ad attenderli. Così, dopo un periodo di grande trasporto, non trovando interlocutori né accoglienza, si sono nuovamente allontanati.
La Chiesa infatti — nonostante i molti dibattiti tra laici e credenti continua a essere autoreferenziale a respingere chi è in ricerca e a diffidare profondamente di chi ha fatto un percorso spirituale diverso. Come mi disse un giorno un prete irritato — al quale stavo spiegando il sentito e tardivo riavvicinamento alla fede di un’amica di cui avrebbe dopo poco celebrato il funerale — «gli ultimi mesi non contano niente, bisogna stare da sempre nella Chiesa», dimostrando così un’ammirevole pienezza evangelica.
Malgrado tutti i discorsi sull’apertura, sulla nuova evangelizzazione, la Chiesa continua a essere una struttura solo apparentemente accogliente, accoglie giustamente i poveri, si prodiga con generosità per alleviare le sofferenze degli ultimi, ma spesso, in questa bulimia dì buone azioni, si dimentica delle inquietudini delle persone normali. Mancano i padri e le madri spirituali, persone credibili, che abbiano fatto un cammino, che conoscano la complessità e la contraddittorietà della vita e che, con umiltà e pazienza, sappiano accompagnare le persone lungo questa strada, senza giudicare e senza chiedere risultati. Nel padre o nella madre spirituale non c’è niente di nuovo, bensì qualcosa di straordinariamente antico: la sete di un’anima che incontra un’altra anima in grado di aiutarla a cercare l’acqua. Non occorrono nuovi «input», nuovi dicasteri, nuove sfide, nuovi raduni oceanici. Occorre soltanto ricordarsi che nell’uomo esiste una parte di mistero e che questa parte va nutrita. La natura umana è sempre uguale e, per crescere interiormente, richiede le stesse cose oggi come ai tempi dei padri del deserto. Se così non fosse, non si spiegherebbe il fascino che ancora ha, ad esempio, San Francesco che da più di ottocento anni continua a parlare e a commuoverci con le sue parole e la sua vita. San Francesco infatti era un Santo. E cosa vuoi dire Santo? Essere una persona integra, totale, una persona che non ha doppiezze, fraintendimenti, che conosce solo il «sì sì, no no» di evangelica memoria.
Sono così la maggior parte delle persone di Chiesa che ci vengono incontro, che parlano dai pulpiti delle parrocchie, in televisione, sui giornali? Hanno sguardi luminosi? Le loro bocche parlano davvero della pienezza del cuore? Sono forze di santità? E se lo sono, perché non arrivano, perché le loro parole lasciano per lo più indifferenti, se non irritati? Perché non faccio altro che incontrare persone buone, rette, etiche, che si sono allontanate per sempre dalla Chiesa dopo esperienze deteriori con i suoi rappresentanti? Dove «deteriore» non è solo il caso estremo del pedofilo, ma anche quello più semplice del sordido, dell’ignavo, del gretto, comunque del doppio?
Perché, nel cattolicesimo, è concessa questa doppiezza? La bocca si riempie di parole alte, ma la vita, spesso, non le manifesta. La coerenza non sembra essere richiesta. Eppure, dove la coerenza c’è, dove c’è testimonianza della pienezza della vita di fede, le chiese sono piene, i nuovi eremiti sparsi sull’Appennino hanno il problema di gestire il flusso delle persone che ininterrottamente va da loro. Già, perché questi sono tempi di grande inquietudine e di grande ricerca. L’uomo in cammino non si accontenta più di formule, di luoghi comuni, di convenzioni sociali, è molto più esigente, cerca risposte vere e profonde alle domande che ha dentro. Questa sete di verità e bellezza non può venire soddisfatta dalla mediocrità delle vite e delle testimonianze né da una liturgia che ha abbandonato il sacro diventando sempre più simile a una sorta di intrattenimento televisivo.
Se una nuova evangelizzazione ci deve essere, dovrebbe dunque riguardare prima di tutti gli uomini e le donne della Chiesa, responsabili purtroppo — in molti, troppi casi — dell’allontanamento dalla fede di tante persone di valore. Forse è il momento di capire che non è la quantità dei sacerdoti, ma è la qualità a fare la differenza. E la qualità non dipende dalla preparazione teologica, dai convegni, dai master accumulati, ma dalla purezza dell’anima che si arrende alla Grazia. Un’anima arresa è un’anima che converte, che disseta. Un’anima che traffica, organizza, o si assopisce sui suoi privilegi, è un’anima che allontana.
Viene il sospetto che questo nuovo dicastero rischi di diventare soltanto l’ennesimo coperchio messo sulla pentola, per non guardare quello che bolle dentro. Nuove cariche, nuovi poteri, nuovi segretari, nuovi bilanci. C’è davvero bisogno, è questo che avvicinerà la gente? O c’è bisogno piuttosto di una grande cura di umiltà? Cancellare i moralismi, i pregiudizi, la pigrizia, la sete di potere e tutta quella zavorra che nulla ha a che vedere con la fede e appesantisce e rende tanto ostile il cattolicesimo agli uomini contemporanei. I nostri tempi hanno bisogno estremo di santità, come ha detto il Papa di recente all’anno sacerdotale, perché davanti alla cosificazione dell’uomo, è l’unica condizione che Io riporta alla straordinaria grandezza per cui è nato. Santità non è un’inerme arrendevolezza, ma è una forza di pienezza, un essere dell’uomo nella totalità compiuta dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, capace così di compiere ogni suo atto nella luce dell’amore
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