Cadde ai piedi del crocifisso in una pozza di sangue, quasi gli dicesse: Oscar, ora la vittima sei tu. “Sentire con la chiesa” era il suo motto di vescovo. Chiesa, il suo popolo, che ama e vuol servire. Innamorato di Cristo e dei suoi fino allo spargimento del sangue.
La sua gente da subito ne ha fatto l’icona del pastore che spende la propria vita in difesa dei più deboli e dei poveri. E lo ha proclamato santo
Dal 1996 è approdato a Roma il suo processo di canonizzazione, dopo la chiusura della fase diocesana. Postulatore della causa è mons. Vincenzo Paglia, vescovo di Terni ed espressione della Comunità di sant’Egidio. Indossa la croce che Romero portava al momento della morte. In passato aveva lasciato intendere che le pratiche procedevano spedite. Ed invece i tempi del “processo” sembrano dilatarsi all’infinito. È lecito chiedersi perché. Possibili speculazioni e strumentalizzazioni politiche? Resistenze da parte dei settori tradizionalisti che ritengono Romero rivoluzionario ed estremista, figura controversa e conflittiva, dimentico della diplomazia, vescovo di frontiera e di lotta, politico, insomma? Ma lui chiedeva semplicemente di applicare la dottrina sociale della chiesa, ritenuta dal potere troppo aperta e quindi tacciato di comunista. Doveroso ricordare che non sapeva granché di politica; e di marxismo quasi nulla.
A lui interessava solo la gente del Salvador per la quale altro non pretendeva che giustizia e pace. Il legame tra le due, Romero lo sottolineava fondato sul Concilio e il magistero. Aveva capito che la chiesa, ovunque, non solo in America Latina o in Salvador, doveva annunciare il vangelo (si definiva il “catechista” del suo popolo) sulla via della giustizia e della pace, due termini che si legano se si parte dall’attenzione ai più poveri e ai più deboli, come appare in tutte le pagine della Scrittura. La persona dei poveri e degli oppressi che per lui oltre che esseri umani erano “divini, in quanto Gesù disse di loro che tutto ciò che si fa ad essi egli lo considera fatto a sé”. Insomma, una passione senza confini per la sorte dei poveri che è elemento ineliminabile della Tradizione della chiesa che da sempre riconosce la predilezione del povero come scelta stessa di Dio. Ricorreva a sant’Agostino e Tommaso d’Aquino per giustificare chi si sollevava contro la tirannia sanguinaria. Citava la Populorum progressio. E per dire che “il vero peccato è l’ingiustizia sociale” non riprendeva forse gli scritti di Ambrogio contro l’oppressione dei poveri e quelli del profeta Neemia sull’usura e lo sfruttamento? Ma sembra non bastare.
Le sue omelie raccontavano i tragici fatti della settimana, le sofferenze che il popolo, i contadini, i catechisti, i sacerdoti subivano. Elencava gli abusi spaventosi che il popolo subiva; uccisioni, rapimenti, torture, sparizioni, distruzione di case e campi…tutte cose che spezzavano davvero il suo cuore di uomo e di pastore.
Sembrano pesare su di lui ancora le sue ultime visite romane piene di incomprensioni. Non basta che si ispirasse al suo amico e consolatore, il vescovo argentino Eduardo Francisco Pironio che Paolo VI farà cardinale nel ’76, nel cui pensiero incontrava una formulazione della teologia della liberazione molto aderente al vangelo e alla dottrina sociale della chiesa. Ma pur sempre di teologia della liberazione si tratta e…non va bene. Bisogna a tutti i costi “spiritualizzare” la sua figura. Puntando i riflettori in maniera esclusiva sui suoi interessi spirituali e la sua vita interiore, fatta di rosari, devozione al Sacro Cuore e alla Madonna, preghiera, sacramenti, meditazione…il primo Romero, insomma, quello “conservatore”, che piaceva al potere, e farne sparire il secondo, quello che per soli tre anni è stato arcivescovo di San Salvador, “convertendosi” a Cristo, certo, ma anche al suo popolo che l’assassinio dell’amico e prete gesuita Rutilio Grande gli aveva fatto riscoprire. Davanti al cadavere dell’amico si disse che doveva seguirne i passi.
Spiritualità certo, ma quella di Romero è stata particolarmente calata nella realtà. Una fede vissuta come impegno a costruire la pace, fondata sulla solidarietà e la giustizia. Mai si è rifugiato in un mondo irreale, pericolo frequente nella storia della chiesa e tipico delle persone spirituali, quelle che come diceva Péguy “siccome non sono della terra, credono di essere del cielo; poiché non amano gli uomini, credono di amare Dio”. Come tanti altri sacerdoti dell’America Latina Romero fu ucciso da persone che si dicevano cristiane e che vedevano in lui un nemico dell’ordine sociale occidentale. Bisogna riconoscere e concludere: Romero martire della società occidentale cristiana. E qui, il discorso sulle radici cristiane dell’Occidente ci porterebbe lontano…
Naturalmente lui, monseñor, dal cielo dove si trova avrà certo la pazienza di sorridere e di aspettare che noi, suoi sostenitori così diversi, ci mettiamo d’accordo. Lui ha sempre creduto in Dio, la cui gloria è la vita e la liberazione degli oppressi. E non dimentica di aver detto: “Se mi uccidono risorgerò nel popolo salvadoregno. Un vescovo morirà, ma la chiesa di Dio, che è il popolo, non morirà mai”.
In Africa Romero ha avuto i suoi emuli: Christophe Munzihirwa, l’arcivescovo gesuita di Bukavu e dal giorno della sua morte noto come “il Romero d’Africa”; il domenicano Pierre Claverie, francese d’Algeria, vescovo di Orano; l’arcivescovo di Gitega (Burundi) Joachim Ruhuna. Tutti uccisi nel 1996, perché schierati dalla parte della giustizia e per la vita. Qualcuno aveva suggerito che per acclamazione il Sinodo africano celebratosi a Roma nell’ottobre scorso li proclamasse “beati”. Non se n’è fatto nulla. Ma i vescovi d’Africa non mancano certo di esempi di loro fratelli fedeli al popolo di Dio fino alla morte. E la gente non ha bisogno di Roma per considerarlisanti.
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