Pubblichiamo integralmente una riflessione – apparsa su Vino Nuovo – di Sergio Ventura – [ romano del ’73, giurista pentito, datosi all’insegnamento per la libertà di ricerca che esso garantisce, si è appassionato alla religione perché – disseminata ovunque – permette di curiosare in tutto, a partire dalla musica.] sui punti ancora non chiari alla vigilia dell’apertura del processo sinodale della Chiesa universale.
Pulirsi bene le orecchie e ascoltare (non solo sentire!), pazientemente, (in) TUTTI – anche se t’insultano, ….. – che cosa lo Spirito (l’alterità par exellence) in-venta (fa av-venire) in noi, che cosa Lui dice sottovoce di sorprendente e di inquietante, di altro e ulteriore, riguardo quella Tradizione che secondo Gesù e Paolo è da sviluppare e ampliare se non vogliamo che – con le parole di Francesco – “imputridisca”…
Nell’ottica dei discorsi di Papa Francesco – soprattutto dell’ultimo rivolto alla diocesi di Roma – è chiaro che il processo sinodale incipiente debba essere caratterizzato da questo stile pneuma-teo-logico e pastorale. Ciò che invece – anche in quest’ultimo discorso – ci sembra ancora da chiarificare è se, nella tensione tra principio gerarchico e democratico, la linea seguita da Francesco sia quella di una decostruzione del Potere dall’interno e, soprattutto, cosa intenda Francesco quando afferma che lo Spirito Santo «fa scoprire la geografia della salvezza divina».
Circa la prima questione il chiarimento è evidente. Da un lato, Francesco ricorda ancora una volta, con tanto di applauso scrosciante da parte del pubblico, chi dovrebbe essere colui che detiene il Potere ed esercita l’Autorità: un ministro (un minus-ter) che è trattenuto «“in basso”» dall’essere al servizio del «“basso” della vita», che sa dire – come Pietro di fronte a Cornelio – «“alzati: anche io sono un uomo”», che sa, in definitiva, rifuggire la tentazione del «noi siamo i puri, noi siamo gli eletti, noi siamo di questo movimento che sa tutto, noi siamo…», per «fare spazio al dialogo sulle nostre miserie, le miserie che ho io come Vescovo vostro, le miserie che hanno i Vescovi ausiliari, le miserie che hanno i preti e i laici e quelli che appartengono alle associazioni; (…) questo è importante: che nel dialogo possano emergere le proprie miserie, senza giustificazioni. Non abbiate paura!».
Alla luce di quanto è emerso in Francia grazie ai lavori della Commissione indipendente sugli abusi nella Chiesa (CIASE), incaricata dalla stessa Conferenza episcopale francese, forse vale la pena di risentire dal vivo questo passaggio:
Dall’altro lato, Francesco, pur usando un paio di volte soltanto il verbo imparare (onnipresente negli altri discorsi), prende atto che «ci sono molte resistenze a superare l’immagine di una Chiesa rigidamente distinta tra capi e subalterni, tra chi insegna e chi deve imparare, dimenticando che a Dio piace ribaltare le posizioni (Lc 1,52)». Ma poi, riprendendo un’immagine usata sin dall’inizio del pontificato, precisa che la questione dell’Autorità non si risolve tanto con il rovesciare totalmente «la verticalità» della piramide del Potere, ma con il ripristinarne «l’orizzontalità»: «Il buon pastore deve muoversi così: davanti per guidare, in mezzo per incoraggiare e non dimenticare l’odore del gregge, dietro perché il popolo ha anche “fiuto” nel trovare nuove vie per il cammino, o per ritrovare la strada smarrita. Questo voglio sottolinearlo, anche ai Vescovi e ai preti della diocesi. Nel loro cammino sinodale si domandino: “Ma io sono capace di camminare, di muovermi, davanti, in mezzo e dietro, o sono soltanto nella cattedra, mitra e baculo e dai dai dai?”… Davanti per indicare la strada, in mezzo per sentire cosa sente il popolo e dietro per aiutare coloro che rimangono un po’ indietro e per lasciare un po’ che il popolo veda con il suo fiuto dove sono le erbe più buone… tutti nella dignità della funzione profetica di Gesù Cristo (cfr Lumen gentium, 34-35), così da poter discernere quali sono le vie del Vangelo nel presente».
Una decisa presa di distanza, quindi, da una visione e da una pratica del Potere e dell’Autorità che si sviluppa secondo una dinamica alto-basso, per una visione che ricorda molto quella vissuta da padre Gabriel, il gesuita del film Mission, soprattutto nel suo porsi davanti solo per occupare un posto rischioso e, come si rivelerà alla fine, mortifero.
Forse anche per questo Papa Francesco ha voluto limitare la durata del mandato di governo nei movimenti cattolici: altrimenti si sarebbero create quelle condizioni che ormai tanti anni fa portarono De André a cantare, con malinconica rassegnazione, «gli apostoli di turno che apprezzano il martirio / lo predicano spesso per novant’anni almeno / morire per delle idee sarà il caso di dirlo / è il loro scopo di vivere, non sanno farne a meno / e sotto ogni bandiera li vediamo superare il buon matusalemme nella longevità / per conto mio si dicono in tutta intimità / moriamo per delle idee, va bè, ma di morte lenta».
Una modifica normativa piccola ma importante, perché aiuta a dare sostanza evangelica all’organo istituzionale che più risente delle tentazioni proprie del Potere. Per questo, fossi stato in Papa Francesco, avrei evitato quel passaggio anche solo lievemente critico sulla riforma delle strutture («la Chiesa non si rafforza solo riformando le strutture – questo è il grande inganno!»), quando poi anche la sottosegretaria al Sinodo dei Vescovi ha qui ricordato che «perché le cose cambino, occorre una conversione delle mentalità e al tempo stesso una riforma delle strutture», facendo notare che «il fatto che siano stati nominati sottosegretari della Segreteria Generale del Sinodo contemporaneamente un uomo e una donna potrebbe servire da esempio altrove».
In merito alla seconda questione, è ancora più interessante il fatto che questa messa in crisi, questa decostruzione interna – evangelica – del Potere si lega, nell’immagine utilizzata da Francesco, al dover imparare – da parte di coloro che esercitano l’Autorità – che i sentieri nuovi (o smarriti) per cercare e trovare la buona notizia, l’e-vangelo di oggi, sono a volte (spesso?) indicati da coloro che di solito nella Chiesa occupano il posto dei discenti, se non degli esclusi (basti pensare al riferimento alla straordinaria parabola dell’asina di Balaam).
Qui, infatti, ci ritroviamo di fronte al punto – anzi al nodo – decisivo su cui, crediamo, sta o cade la pretesa novità della categoria Chiesa-in-uscita: come già detto altrove, o Papa Francesco sta semplicemente ripetendo, con un linguaggio più fresco e avvalorandolo, il fatto che « gli uomini e le donne di Chiesa tendono più spesso – più facilmente – a pensarsi come coloro che, in quanto alter Christus, seminano o almeno cooperano con la semina di Gesù», oppure Papa Francesco sta «chiedendo di pensarci innanzitutto – e forse, in questo kairòs, solamente – come chi né semina, né coopera con la semina, ma solo parte alla ricerca della buona notizia dei semi già piantati da Gesù o dei loro frutti (ecco la missione evangelizzatrice oggi!), per proteggerli, aiutarli a crescere, a maturare e – perché no? – anche a raccoglierli e condividerli».
Ora, nel discorso alla diocesi di Roma, vi sono immagini anche suggestive che, però, non sciolgono il dilemma: «Pietro e Paolo (…) sono discepoli dello Spirito Santo, che fa scoprire loro la geografia della salvezza divina»; «non possiamo capire la “cattolicità” senza riferirci a questo campo largo, ospitale, che non segna mai i confini. Essere Chiesa è un cammino per entrare in questa ampiezza di Dio»; «quando la Chiesa è testimone, in parole e fatti, dell’amore incondizionato di Dio, della sua larghezza ospitale, esprime veramente la propria cattolicità. Ed è spinta dallo Spirito, interiormente ed esteriormente, ad attraversare gli spazi e i tempi».
Ma la questione non è se lo Spirito ci spinga, ci “autorizzi” (o meno) ad estrovertere o ad allargare i confini e l’orizzonte della missione (movimenti ecclesiali già portati avanti, rispettivamente, da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI): ciò non sarebbe sufficiente ad evitare «la tentazione di fare da soli, esprimendo una ecclesiologia sostitutiva, come se, asceso al Cielo, il Signore avesse lasciato un vuoto da riempire, e lo riempiamo noi». Per dare invece forza e senso alla protesta di Francesco – «No, il Signore ci ha lasciato lo Spirito!» – è necessario almeno precisare che lo Spirito ha già allargato confini e orizzonti, perché si sta già muovendo, sta già operando buone notizie nell’umanità: a prescindere e, in alcuni casi, nonostante la Chiesa stessa.
Significativo in tal senso è come Papa Francesco abbia qui parlato della «profezia» di Foi et lumière riguardo il «“vangelo della piccolezza”»: «lo Spirito Santo ha suggerito la nascita di qualcosa che nessuno aveva previsto, cioè le vostre comunità [che] hanno donato speranza a tante persone che si sentivano escluse e rifiutate, a volte anche nella Chiesa» (perché «ancora oggi nella Chiesa e nel mondo sono tanti coloro che nella piccolezza e nella fragilità sono dimenticati ed esclusi»).
Nella direzione di uno Spirito che anticipa la Chiesa, però, sembrano andare altre immagini, ancora più suggestive, utilizzate da Francesco nel discorso alla diocesi di Roma: «nessuna “dogana” religiosa avrebbe fatto passare [Cornelio]. Era un pagano, eppure, gli viene rivelato che le sue preghiere sono giunte a Dio»; «si trattava di riconoscere la libertà dell’azione di Dio, e che non c’erano ostacoli che potessero impedirgli di raggiungere il cuore delle persone, qualsiasi fosse la condizione di provenienza, morale o religiosa (…) Lui stesso sosteneva la causa in favore della possibilità che i pagani potessero essere ammessi alla salvezza»; di conseguenza «le soluzioni vanno ricercate dando la parola a Dio e alle sue voci in mezzo a noi; pregando e aprendo gli occhi a tutto ciò che ci circonda (…) secondo un’ermeneutica pellegrina che (…) non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace».
“Bingo!” – si potrebbe esclamare. Il problema è che il discorso di Francesco, subito dopo aver corretto di fatto il §20 del Documento Preparatorio al Sinodo (laddove esso parla di interruzione del rapporto con la verità evangelica se non vi sono gli apostoli), non riesce a ripensare – seppur all’interno di un’apprezzabile ermeneutica (non rigida o esclusivista o antagonista) di chi è il popolo di Dio – quell’aspetto della Chiesa missionaria (in stile wojtyliano-ratzingeriano) secondo il quale essere popolo di Dio «è un dono che qualcuno riceve per tutti, che noi abbiamo ricevuto per gli altri, è un dono che è anche la responsabilità di testimoniare nei fatti e non solo a parole le meraviglie di Dio».
Tale linguaggio, infatti, esprime una sostanza che non riesce ad evitare il rischio di quell’ecclesiologia sostitutiva da cui ci mette in guardia lo stesso Francesco e, perciò, non è all’altezza (o nelle profondità) della richiesta effettuata dallo stesso di Papa alla Chiesa: quella di «sentirsi in rapporto con questa elezione universale». Anche qui avevamo già espresso la nostra ipotesi: il testimone deve essere non «ossessionato dal trasmettere agli altri un depositum fidei già d(on)ato e (pre)confezionato, ma desideroso di scoprire negli altri ciò che attualizzerà e rinverdirà quel depositum fidei; non concentrato esclusivamente sul proprio dono – ricevuto in passato da Dio – da regalare, presentare agli altri, ma anche e forse oggi innanzitutto sul regalo, sul presente – di Dio – che gli altri possono essere per noi».
Solo in questo modo, mi sembra, è sensato ripetere con Francesco: «permettete a voi stessi di andare incontro e lasciarvi interrogare, che le loro domande siano le vostre domande … Non abbiate paura di entrare in dialogo e lasciatevi sconvolgere dal dialogo». Il testimone, infatti, potrà essere sconvolto dal «dialogo della salvezza» solo se si relazionerà con l’altro non tanto e solo considerandolo come un recettore, ma soprattutto come un trasmettitore rispetto al quale è lui stesso – il testimone – a dover essere recettivo…
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