Nella Chiesa tutti vanno ascoltati “per sentire cosa sentono, anche gli insulti”. E’ uno dei passaggi più significativi del lungo e denso discorso che Papa Francesco ha rivolto alla diocesi di Roma ricevuta in udienza nell’Aula Paolo VI.
Papa Bergoglio ha tracciato una road map da seguire nel cammino sinodale che si svolgerà tra ottobre 2021 e ottobre 2023.
Di seguito il discorso di Papa Francesco
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Come sapete – non è una novità! –, sta per iniziare un processo sinodale, un cammino in cui tutta la Chiesa si trova impegnata intorno al tema: «Per un Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione»: tre pilastri.
Sono previste tre fasi, che si svolgeranno tra ottobre 2021 e ottobre 2023. Questo itinerario è stato pensato come dinamismo di ascolto reciproco, voglio sottolineare questo: un dinamismo di ascolto reciproco, condotto a tutti i livelli di Chiesa, coinvolgendo tutto il popolo di Dio.
Il Cardinale vicario e i Vescovi ausiliari devono ascoltarsi, i preti devono ascoltarsi, i religiosi devono ascoltarsi, i laici devono ascoltarsi. E poi, inter-ascoltarsi tutti. Ascoltarsi; parlarsi e ascoltarsi.
Non si tratta di raccogliere opinioni, no. Non è un’inchiesta, questa; ma si tratta di ascoltare lo Spirito Santo, come troviamo nel libro dell’Apocalisse: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (2,7). Avere orecchi, ascoltare, è il primo impegno. Si tratta di sentire la voce di Dio, cogliere la sua presenza, intercettare il suo passaggio e soffio di vita. Capitò al profeta Elia di scoprire che Dio è sempre un Dio delle sorprese, anche nel modo in cui passa e si fa sentire:
«Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce […], ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello» (1Re 19, 11-13).
Ecco come ci parla Dio. Ed è per questa “brezza leggera” – che gli esegeti traducono anche “voce sottile di silenzio” e qualcun altro “un filo di silenzio sonoro” – che dobbiamo rendere pronte le nostre orecchie, per sentire questa brezza di Dio.
La prima tappa del processo (ottobre 2021 – aprile 2022) è quella che riguarda le singole Chiese diocesane. Ed è per questo che sono qui, come vostro Vescovo, a condividere, perché è molto importante che la Diocesi di Roma si impegni con convinzione in questo cammino. Sarebbe una figuraccia che la Diocesi del Papa non si impegnasse in questo, no? Una figuraccia per il Papa e anche per voi.
Il tema della sinodalità non è il capitolo di un trattato di ecclesiologia, e tanto meno una moda, uno slogan o il nuovo termine da usare o strumentalizzare nei nostri incontri. No! La sinodalità esprime la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione. E quindi parliamo di Chiesa sinodale, evitando, però, di considerare che sia un titolo tra altri, un modo di pensarla che preveda alternative. Non lo dico sulla base di un’opinione teologica, neanche come un pensiero personale, ma seguendo quello che possiamo considerare il primo e il più importante “manuale” di ecclesiologia, che è il libro degli Atti degli Apostoli.
La parola “sinodo” contiene tutto quello che ci serve per capire: “camminare insieme”.
Il libro degli Atti è la storia di un cammino che parte da Gerusalemme e, attraversando la Samaria e la Giudea, proseguendo nelle regioni della Siria e dell’Asia Minore e quindi nella Grecia, si conclude a Roma. Questa strada racconta la storia in cui camminano insieme la Parola di Dio e le persone che a quella Parola rivolgono l’attenzione e fede. La Parola di Dio cammina con noi.
Tutti sono protagonisti, nessuno può essere considerato semplice comparsa. Questo bisogna capirlo bene: tutti sono protagonisti. Non è più protagonista il Papa, il Cardinale vicario, i Vescovi ausiliari; no: tutti siamo protagonisti, e nessuno può essere considerato una semplice comparsa.
I ministeri, allora, erano ancora considerati autentici servizi. E l’autorità nasceva dall’ascolto della voce di Dio e della gente – mai separarli – che tratteneva “in basso” coloro che la ricevevano. Il “basso” della vita, a cui bisognava rendere il servizio della carità e della fede. Ma quella storia non è in movimento soltanto per i luoghi geografici che attraversa. Esprime una continua inquietudine interiore: questa è una parola chiave, la inquietudine interiore. Se un cristiano non sente questa inquietudine interiore, se non la vive, qualcosa gli manca; e questa inquietudine interiore nasce dalla propria fede e ci invita a valutare cosa sia meglio fare, cosa si deve mantenere o cambiare. Quella storia ci insegna che stare fermi non può essere una buona condizione per la Chiesa (cfr Evangelii gaudium, 23). E il movimento è conseguenza della docilità allo Spirito Santo, che è il regista di questa storia in cui tutti sono protagonisti inquieti, mai fermi.
Pietro e Paolo, non sono solo due persone con i loro caratteri, sono visioni inserite in orizzonti più grandi di loro, capaci di ripensarsi in relazione a quanto accade, testimoni di un impulso che li mette in crisi – un’altra espressione da ricordare sempre: mettere in crisi –, che li spinge a osare, domandare, ricredersi, sbagliare e imparare dagli errori, soprattutto di sperare nonostante le difficoltà. Sono discepoli dello Spirito Santo, che fa scoprire loro la geografia della salvezza divina, aprendo porte e finestre, abbattendo muri, spezzando catene, liberando confini. Allora può essere necessario partire, cambiare strada, superare convinzioni che trattengono e ci impediscono di muoverci e camminare insieme.
Possiamo vederelo Spirito che spinge Pietro ad andare nella casa di Cornelio, il centurione pagano, nonostante le sue esitazioni. Ricordate: Pietro aveva avuto una visione che l’aveva turbato, nella quale gli veniva chiesto di mangiare cose considerate impure, e, nonostante la rassicurazione che quanto Dio purifica non va più ritenuto immondo, restava perplesso. Stava cercando di capire, ed ecco arrivare gli uomini mandati da Cornelio. Anche lui aveva ricevuto una visione e un messaggio. Era un ufficiale romano, pio, simpatizzante per il giudaismo, ma non era ancora abbastanza per essere pienamente giudeo o cristiano: nessuna “dogana” religiosa lo avrebbe fatto passare. Era un pagano, eppure, gli viene rivelato che le sue preghiere sono giunte a Dio, e che deve mandare qualcuno a dire a Pietro di recarsi a casa sua. In questa sospensione, da una parte Pietro con i suoi dubbi, e dall’altra Cornelio che aspetta in quella zona d’ombra, è lo Spirito a sciogliere le resistenze di Pietro e aprire una nuova pagina della missione. Così si muove lo Spirito: così. L’incontro tra i due sigilla una delle frasi più belle del cristianesimo. Cornelio gli era andato incontro, si era gettato ai suoi piedi, ma Pietro rialzandolo gli dice: «Alzati: anch’io sono un uomo!» (At 10,26), e questo lo diciamo tutti: “Io sono un uomo, io sono una donna, siamo umani”, e dovremmo dirlo tutti, anche i Vescovi, tutti noi: “alzati: anche io sono un uomo”. E il testo sottolinea che conversò con lui in maniera familiare (cfr v. 27). Il cristianesimo dev’essere sempre umano, umanizzante, riconciliare differenze e distanze trasformandole in familiarità, in prossimità. Uno dei mali della Chiesa, anzi una perversione, è questo clericalismo che stacca il prete, il Vescovo dalla gente. Il Vescovo e il prete staccato dalla gente è un funzionario, non è un pastore. San Paolo VI amava citare la massima di Terenzio: «Sono uomo, niente di ciò ch’è umano lo stimo a me estraneo». L’incontro tra Pietro e Cornelio risolse un problema, favorì la decisione di sentirsi liberi di predicare direttamente ai pagani, nella convinzione – sono le parole di Pietro – «che Dio non fa preferenza di persone» (At 10,34). In nome di Dio non si può discriminare. E la discriminazione è un peccato anche fra noi: “noi siamo i puri, noi siamo gli eletti, noi siamo di questo movimento che sa tutto, noi siamo…”. No. Noi siamo Chiesa, tutti insieme.
E vedete, non possiamo capire la “cattolicità” senza riferirci a questo campo largo, ospitale, che non segna mai i confini.
Essere Chiesa è un cammino per entrare in questa ampiezza di Dio.
Poi, tornando agli Atti degli Apostoli, ci sono i problemi che nascono riguardo all’organizzazione del crescente numero dei cristiani, e soprattutto per provvedere ai bisogni dei poveri. Alcuni segnalano il fatto che le vedove vengono trascurate. Il modo con cui si troverà la soluzione sarà radunare l’assemblea dei discepoli, prendendo insieme la decisione di designare quei sette uomini che si sarebbero impegnati a tempo pieno nella diakonia, nel servizio alle mense (At 6,1-7). E così, con il discernimento, con le necessità, con la realtà della vita e la forza dello Spirito, la Chiesa va avanti, cammina insieme, è sinodale. Ma sempre c’è lo Spirito come grande protagonista della Chiesa.
Inoltre, c’è anche il confronto tra visioni e attese differenti. Non dobbiamo temere che questo accada ancora oggi. Magari si potesse discutere così! Sono segni della docilità e apertura allo Spirito.
Possono anche determinarsi scontri che raggiungono punte drammatiche, come capitò di fronte al problema della circoncisione dei pagani, fino alla deliberazione di quello che chiamiamo il Concilio di Gerusalemme, il primo Concilio. Come accade anche oggi, c’è un modo rigido di considerare le circostanze, che mortifica la makrothymía di Dio, cioè quella pazienza dello sguardo che si nutre di visioni profonde, visioni larghe, visioni lunghe: Dio vede lontano, Dio non ha fretta. La rigidità è un’altra perversione che è un peccato contro la pazienza di Dio, è un peccato contro questa sovranità di Dio. Anche oggi succede questo.
Era capitato allora: alcuni, convertiti dal giudaismo, ritenevano nella loro autoreferenzialità che non ci potesse essere salvezza senza sottomettersi alla Legge di Mosè. In questo modo si contestava Paolo, il quale proclamava la salvezza direttamente nel nome di Gesù. Contrastare la sua azione avrebbe compromesso l’accoglienza dei pagani, che nel frattempo si stavano convertendo. Paolo e Barnaba furono mandati a Gerusalemme dagli Apostoli e dagli anziani. Non fu facile: davanti a questo problema le posizioni sembravano inconciliabili, si discusse a lungo. Si trattava di riconoscere la libertà dell’azione di Dio, e che non c’erano ostacoli che potessero impedirgli di raggiungere il cuore delle persone, qualsiasi fosse la condizione di provenienza, morale o religiosa. A sbloccare la situazione fu l’adesione all’evidenza che «Dio, che conosce i cuori», il cardiognosta, conosce i cuori, Lui stesso sosteneva la causa in favore della possibilità che i pagani potessero essere ammessi alla salvezza, «concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi» (At 15,8), concedendo così anche ai pagani lo Spirito Santo, come a noi. In tal modo prevalse il rispetto di tutte le sensibilità, temperando gli eccessi; si fece tesoro dell’esperienza avuta da Pietro con Cornelio: così, nel documento finale, troviamo la testimonianza del protagonismo dello Spirito in questo cammino di decisioni, e della sapienza che è sempre capace di ispirare: «È parso bene, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo» eccetto quello necessario (At 15,28). “Noi”: In questo Sinodo andiamo sulla strada di poter dire “è parso allo Spirito Santo e a noi”, perché sarete in dialogo continuo tra voi sotto l’azione dello Spirito Santo, anche in dialogo con lo Spirito Santo. Non dimenticatevi di questa formula: “È parso bene allo Spirito Santo e a noi di non imporvi altro obbligo”: è parso bene allo Spirito Santo e a noi. Così dovrete cercare di esprimervi, in questa strada sinodale, in questo cammino sinodale. Se non ci sarà lo Spirito, sarà un parlamento diocesano, ma non un Sinodo. Noi non stiamo facendo un parlamento diocesano, non stiamo facendo uno studio su questo o l’altro, no: stiamo facendo un cammino di ascoltarsi e ascoltare lo Spirito Santo, di discutere e anche discutere con lo Spirito Santo, che è un modo di pregare.
“Lo Spirito santo e noi”. C’è sempre, invece, la tentazione di fare da soli, esprimendo una ecclesiologia sostitutiva – ce ne sono tante, di ecclesiologie sostitutive – come se, asceso al Cielo, il Signore avesse lasciato un vuoto da riempire, e lo riempiamo noi. No, il Signore ci ha lasciato lo Spirito! Ma le parole di Gesù sono chiare: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. […] Non vi lascerò orfani» (Gv 14,16.18). Per l’attuazione di questa promessa la Chiesa è sacramento, come affermato in Lumen gentium 1: «La Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». In questa frase, che raccoglie la testimonianza del Concilio di Gerusalemme, c’è la smentita di chi si ostina a prendere il posto di Dio, pretendendo di modellare la Chiesa sulle proprie convinzioni culturali, storiche, costringendola a frontiere armate, a dogane colpevolizzanti, a spiritualità che bestemmiano la gratuità dell’azione coinvolgente di Dio. Quando la Chiesa è testimone, in parole e fatti, dell’amore incondizionato di Dio, della sua larghezza ospitale, esprime veramente la propria cattolicità. Ed è spinta, interiormente ed esteriormente, ad attraversare gli spazi e i tempi. L’impulso e la capacità vengono dallo Spirito:«Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). Ricevere la forza dello Spirito Santo per essere testimoni: questa è la strada di noi Chiesa, e noi saremo Chiesa se andremo su questa strada.
Chiesa sinodale significa Chiesa sacramento di questa promessa – cioè che lo Spirito sarà con noi – che si manifesta coltivando l’intimità con lo Spirito e con il mondo che verrà. Ci saranno sempre discussioni, grazie a Dio, ma le soluzioni vanno ricercate dando la parola a Dio e alle sue voci in mezzo a noi; pregando e aprendo gli occhi a tutto ciò che ci circonda; praticando una vita fedele al Vangelo; interrogando la Rivelazione secondo un’ermeneutica pellegrina che sa custodire il cammino cominciato negli Atti degli Apostoli. E questo è importante: il modo di capire, di interpretare. Un’ermeneutica pellegrina, cioè che è in cammino. Il cammino che è incominciato dopo il Concilio? No. È incominciato con i primi Apostoli, e continua. Quando la Chiesa si ferma, non è più Chiesa, ma una bella associazione pia perché ingabbia lo Spirito Santo. Ermeneutica pellegrina che sa custodire il cammino incominciato negli Atti degli Apostoli. Diversamente si umilierebbe lo Spirito Santo. Gustav Mahler – questo l’ho detto altre volte – sosteneva che la fedeltà alla tradizione non consiste nell’adorare le ceneri ma nel custodire il fuoco. Io domando a voi: “Prima di incominciare questo cammino sinodale, a che cosa siete più inclini: a custodire le ceneri della Chiesa, cioè della vostra associazione, del vostro gruppo, o a custodire il fuoco? Siete più inclini ad adorare le vostre cose, che vi chiudono – io sono di Pietro, io sono di Paolo, io sono di questa associazione, voi dell’altra, io sono prete, io sono Vescovo – o vi sentite chiamati a custodire il fuoco dello Spirito? È stato un grande compositore, questo Gustav Mahler, ma è anche maestro di saggezza con questa riflessione. Dei Verbum (n. 8), citando la Lettera agli Ebrei, afferma: «“Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri” (Eb 1,1), non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio». C’è una felice formula di San Vincenzo di Lérins che, mettendo a confronto l’essere umano in crescita e la Tradizione che si trasmette da una generazione all’altra, afferma che non si può conservare il “deposito della fede” senza farlo progredire: «consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età» (Commonitorium primum, 23,9) – “ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”. Questo è lo stile del nostro cammino: le realtà, se non camminano, sono come le acque. Le realtà teologiche sono come l’acqua: se l’acqua non scorre ed è stantia è la prima a entrare in putrefazione. Una Chiesa stantia incomincia a essere putrefatta.
Vedete come la nostra Tradizione è una pasta lievitata, una realtà in fermento dove possiamo riconoscere la crescita, e nell’impasto una comunione che si attua in movimento: camminare insieme realizza la vera comunione. È ancora il libro degli Atti degli Apostoli ad aiutarci, mostrandoci che la comunione non sopprime le differenze. È la sorpresa della Pentecoste, quando le lingue diverse non sono ostacoli: nonostante fossero stranieri gli uni per gli altri, grazie all’azione dello Spirito «ciascuno sente parlare nella propria lingua nativa» (At 2,8). Sentirsi a casa, differenti ma solidali nel cammino. Scusatemi la lunghezza, ma il Sinodo è una cosa seria, e per questo io mi sono permesso di parlare…
Tornando al processo sinodale, la fase diocesana è molto importante, perché realizza l’ascolto della totalità dei battezzati, soggetto del sensus fidei infallibile in credendo.
Ci sono molte resistenze a superare l’immagine di una Chiesa rigidamente distinta tra capi e subalterni, tra chi insegna e chi deve imparare, dimenticando che a Dio piace ribaltare le posizioni: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52), ha detto Maria.
Camminare insieme scopre come sua linea piuttosto l’orizzontalità che la verticalità.
La Chiesa sinodale ripristina l’orizzonte da cui sorge il sole Cristo: innalzare monumenti gerarchici vuol dire coprirlo. I pastori camminano con il popolo: noi pastori camminiamo con il popolo, a volte davanti, a volte in mezzo, a volte dietro. Il buon pastore deve muoversi così: davanti per guidare, in mezzo per incoraggiare e non dimenticare l’odore del gregge, dietro perché il popolo ha anche “fiuto”. Ha fiuto nel trovare nuove vie per il cammino, o per ritrovare la strada smarrita. Questo voglio sottolinearlo, e anche ai Vescovi e ai preti della diocesi. Nel loro cammino sinodale si domandino: “Ma io sono capace di camminare, di muovermi, davanti, in mezzo e dietro, o sono soltanto nella cattedra, mitra e baculo?”. Pastori immischiati, ma pastori, non gregge: il gregge sa che siamo pastori, il gregge sa la differenza. Davanti per indicare la strada, in mezzo per sentire cosa sente il popolo e dietro per aiutare coloro che rimangono un po’ indietro e per lasciare un po’ che il popolo veda con il suo fiuto dove sono le erbe più buone.
Il sensus fidei qualifica tutti nella dignità della funzione profetica di Gesù Cristo (cfr Lumen gentium, 34-35), così da poter discernere quali sono le vie del Vangelo nel presente. È il “fiuto” delle pecore, ma stiamo attenti che, nella storia della salvezza, tutti siamo pecore rispetto al Pastore che è il Signore. L’immagine ci aiuta a capire le due dimensioni che contribuiscono a questo “fiuto”. Una personale e l’altra comunitaria: siamo pecore e siamo parte del gregge, che in questo caso rappresenta la Chiesa. Stiamo leggendo nel Breviario, Ufficio delle Letture, il “De pastoribus” di Agostino, e lì ci dice: “Con voi sono pecora, per voi sono pastore”. Questi due aspetti, personale ed ecclesiale, sono inseparabili: non può esserci sensus fidei senza partecipazione alla vita della Chiesa, che non è solo l’attivismo cattolico, ci dev’essere soprattutto quel “sentire” che si nutre dei «sentimenti di Cristo» (Fil 2,5).
L’esercizio del sensus fidei non può essere ridotto alla comunicazione e al confronto tra opinioni che possiamo avere riguardo a questo o quel tema, a quel singolo aspetto della dottrina, o a quella regola della disciplina. No, quelli sono strumenti, sono verbalizzazioni, sono espressioni dogmatiche o disciplinari. Ma non deve prevalere l’idea di distinguere maggioranze e minoranze: questo lo fa un parlamento. Quante volte gli “scarti” sono diventati “pietra angolare” (cfr Sal 118,22; Mt 21,42), i «lontani» sono diventati «vicini» (Ef 2,13). Gli emarginati, i poveri, i senza speranza sono stati eletti a sacramento di Cristo (cfr Mt 25,31-46). La Chiesa è così. E quando alcuni gruppi volevano distinguersi di più, questi gruppi sono finiti sempre male, anche nella negazione della Salvezza, nelle eresie. Pensiamo a queste eresie che pretendevano di portare avanti la Chiesa, come il pelagianesimo, poi il giansenismo. Ogni eresia è finita male. Lo gnosticismo e il pelagianesimo sono tentazioni continue della Chiesa. Ci preoccupiamo tanto, giustamente, che tutto possa onorare le celebrazioni liturgiche, e questo è buono – anche se spesso finiamo per confortare solo noi stessi – ma San Giovanni Crisostomo ci ammonisce: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo”, confermando il fatto con la parola, ha detto anche “Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare” e: “Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli tra questi, non l’avete fatto neppure a me”» (Omelie sul Vangelo di Matteo, 50, 3). “Ma, Padre, cosa sta dicendo? I poveri, i mendicanti, i giovani tossicodipendenti, tutti questi che la società scarta, sono parte del Sinodo?”. Sì, caro, sì, cara: non lo dico io, lo dice il Signore: sono parte della Chiesa. Al punto tale che se tu non li chiami, si vedrà il modo, o se non vai da loro per stare un po’ con loro, per sentire non cosa dicono ma cosa sentono, anche gli insulti che ti danno, non stai facendo bene il Sinodo. Il Sinodo è fino ai limiti, comprende tutti. Il Sinodo è anche fare spazio al dialogo sulle nostre miserie, le miserie che ho io come Vescovo vostro, le miserie che hanno i Vescovi ausiliari, le miserie che hanno i preti e i laici e quelli che appartengono alle associazioni; prendere tutta questa miseria! Ma se noi non includiamo i miserabili – tra virgolette – della società, quelli scartati, mai potremo farci carico delle nostre miserie. E questo è importante: che nel dialogo possano emergere le proprie miserie, senza giustificazioni. Non abbiate paura!
Bisogna sentirsi parte di un unico grande popolo destinatario delle divine promesse, aperte a un futuro che attende che ognuno possa partecipare al banchetto preparato da Dio per tutti i popoli (cfr Is 25,6). E qui vorrei precisare che anche sul concetto di “popolo di Dio” ci possono essere ermeneutiche rigide e antagoniste, rimanendo intrappolati nell’idea di una esclusività, di un privilegio, come accadde per l’interpretazione del concetto di “elezione” che i profeti hanno corretto, indicando come dovesse essere rettamente inteso. Non si tratta di un privilegio – essere popolo di Dio –, ma di un dono che qualcuno riceve … per sé? No: per tutti, il dono è per donarlo: questa è la vocazione. È un dono che qualcuno riceve per tutti, che noi abbiamo ricevuto per gli altri, è un dono che è anche una responsabilità. La responsabilità di testimoniare nei fatti e non solo a parole le meraviglie di Dio, che, se conosciute, aiutano le persone a scoprire la sua esistenza e ad accogliere la sua salvezza. L’elezione è un dono, e la domanda è: il mio essere cristiano, la mia confessione cristiana, come lo regalo, come lo dono? La volontà salvifica universale di Dio si offre alla storia, a tutta l’umanità attraverso l’incarnazione del Figlio, perché tutti, attraverso la mediazione della Chiesa, possano diventare figli suoi e fratelli e sorelle tra loro. È in questo modo che si realizza la riconciliazione universale tra Dio e l’umanità, quell’unità di tutto il genere umano di cui la Chiesa è segno e strumento (cfr Lumen gentium, 1). Già prima del Concilio Vaticano II era maturata la riflessione, elaborata sullo studio attento dei Padri, che il popolo di Dio è proteso verso la realizzazione del Regno, verso l’unità del genere umano creato e amato da Dio. E la Chiesa come noi la conosciamo e sperimentiamo, nella successione apostolica, questa Chiesa deve sentirsi in rapporto con questa elezione universale e per questo svolgere la sua missione. Con questo spirito ho scritto Fratelli tutti. La Chiesa, come diceva San Paolo VI, è maestra di umanità che oggi ha lo scopo di diventare scuola di fraternità.
Perché vi dico queste cose? Perché nel cammino sinodale, l’ascolto deve tener conto del sensus fidei, ma non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace. Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini, e non si lascia nemmeno limitare dalle appartenenze. Se la parrocchia è la casa di tutti nel quartiere, non un club esclusivo, mi raccomando: lasciate aperte porte e finestre, non vi limitate a prendere in considerazione solo chi frequenta o la pensa come voi – che saranno il 3, 4 o 5%, non di più. Permettete a tutti di entrare… Permettete a voi stessi di andare incontro e lasciarsi interrogare, che le loro domande siano le vostre domande, permettete di camminare insieme: lo Spirito vi condurrà, abbiate fiducia nello Spirito. Non abbiate paura di entrare in dialogo e lasciatevi sconvolgere dal dialogo: è il dialogo della salvezza.
Non siate disincantati, preparatevi alle sorprese. C’è un episodio nel libro dei Numeri (cap. 22) che racconta di un’asina che diventerà profetessa di Dio. Gli ebrei stanno concludendo il lungo viaggio che li condurrà alla terra promessa. Il loro passaggio spaventa il re Balak di Moab, che si affida ai poteri del mago Balaam per bloccare quella gente, sperando di evitare una guerra. Il mago, a suo modo credente, domanda a Dio che fare. Dio gli dice di non assecondare il re, che però insiste, e allora lui cede e sale su un’asina per adempiere il comando ricevuto. Ma l’asina cambia strada perché vede un angelo con la spada sguainata che sta lì a rappresentare la contrarietà di Dio. Balaam la tira, la percuote, senza riuscire a farla tornare sulla via. Finché l’asina si mette a parlare avviando un dialogo che aprirà gli occhi al mago, trasformando la sua missione di maledizione e morte in missione di benedizione e vita.
Questa storia ci insegna ad avere fiducia che lo Spirito farà sentire sempre la sua voce. Anche un’asina può diventare la voce di Dio, aprirci gli occhi e convertire le nostre direzioni sbagliate. Se lo può fare un’asina, quanto più un battezzato, una battezzata, un prete, un Vescovo, un Papa. Basta affidarsi allo Spirito Santo che usa tutte le creature per parlarci: soltanto ci chiede di pulire le orecchie per sentire bene.
Sono venuto qui per incoraggiarvi a prendere sul serio questo processo sinodale e a dirvi che lo Spirito Santo ha bisogno di voi. E questo è vero: lo Spirito Santo ha bisogno di noi. Ascoltatelo ascoltandovi. Non lasciate fuori o indietro nessuno. Farà bene alla Diocesi di Roma e a tutta la Chiesa, che non si rafforza solo riformando le strutture – questo è il grande inganno! –, dando istruzioni, offrendo ritiri e conferenze, o a forza di direttive e programmi – questo è buono, ma come parte di altro – ma se riscoprirà di essere popolo che vuole camminare insieme, tra di noi e con l’umanità. Un popolo, quello di Roma, che contiene la varietà di tutti i popoli e di tutte le condizioni: che straordinaria ricchezza, nella sua complessità! Ma occorre uscire dal 3-4% che rappresenta i più vicini, e andare oltre per ascoltare gli altri, i quali a volte vi insulteranno, vi cacceranno via, ma è necessario sentire cosa pensano, senza volere imporre le nostre cose: lasciare che lo Spirito ci parli.
In questo tempo di pandemia, il Signore spinge la missione di una Chiesa che sia sacramento di cura. Il mondo ha elevato il suo grido, ha manifestato la sua vulnerabilità: il mondo ha bisogno di cura.
Coraggio e avanti! Grazie!
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