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Vangelo del giorno
Sabato 23 Novembre 2024

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
Dissero allora alcuni scribi: «Maestro, hai parlato bene». E non osavano più rivolgergli alcuna domanda.

(Lc. 20,27-40) 

Bibbia – CEI 2008
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Per citazione
(es. Mt 28,1-20):
Per parola:

In un momento nel quale forte è il richiamo di Francesco su uno dei “ problemi” della chiesa:

il clericalismo è una vera perversione nella Chiesa, pretende che il pastore stia sempre davanti, stabilisce una rotta, e punisce con la scomunica chi si allontana dal gregge. Insomma: è proprio l’opposto di quello che ha fatto Gesù. 

Il clericalismo condanna, separa, frusta, disprezza il popolo di Dio. Il clericalismo confonde il ‘servizio’ presbiterale con la ‘potenza’ presbiterale. Il clericalismo è ascesa e dominio. In italiano si chiama ‘arrampicamento’. Il clericalismo ha come diretta conseguenza la rigidità. Non avete mai visto giovani sacerdoti tutti rigidi in tonaca nera e cappello a forma del pianeta Saturno in testa? Dietro a tutto il rigido clericalismo ci sono seri problemi….”

vogliamo ricordare Giovanni Franzoni che si è spento  il 13 Luglio del 2017.

L’abbiamo ascoltato con interesse molti anni fa alla facoltà di Magistero di Palermo.  Ricordiamo ancora la riflessione sull’influenza europeista sull’universalità del cattolicesimo.

A proposito dell’Eucaristia diceva “ Se Cristo fosse nato cinese certamente non avrebbe usato il pane e il vino come specie ma  possibilmente il latte e il riso”.

 

Per fare memoria il ricordo di Luigi Sandri del 2017 su “Confronti

 

Tratteggiare pur velocemente, a pochi giorni dalla sua scomparsa (13 luglio), la vita e le opere di Giovanni Franzoni, è impresa ardua. Siamo ancora immersi nella commozione, nei ricordi, nel pensiero della veglia che, accanto alla sua bara, facemmo nel salone della Comunità cristiana di base (Cdb) di san Paolo la notte tra il 14 e il 15 luglio e, poi, nella rivisitazione delle immagini toccanti del funerale che, sabato 15, vide tantissime persone raccolte nel salone del Centro anziani del parco Schuster, a lato della basilica ostiense. E così abbiamo dato l’ultimo saluto al nostro Giovanni, di fronte – ma non dentro! – a quella basilica e a quel monastero ove fu abate dal marzo 1964 al luglio 1973, quando da pressioni ecclesiastiche fu “costretto” a lasciare quell’alta carica, in forza della quale era stato “padre” del Concilio alle ultime due sessioni del Vaticano II, e anche membro della Conferenza episcopale italiana (Cei).

A tempo debito, sarà necessario ripercorrere più attentamente e più ampiamente l’intera sua esperienza, anche perché non si disperda una testimonianza umana ed evangelica che riteniamo preziosissima, e che l’angelo della morte non dovrebbe occultare. Intanto, però, presi dall’urgenza di mettere insieme almeno alcuni spezzoni della sua vita, e volendo rispondere a domande di nostri lettori e lettrici, qui e ora cerchiamo di rivisitare alcune tappe più decisive della sua esistenza, e segnalare alcune sue opere. Dunque, pochi flash che, però, possono illuminare un cammino e fare intuire il “chi è” del nostro indimenticabile Giovanni.

Un uomo con i suoi limiti

Quando muore qualche esponente di spicco del mondo ecclesiastico – ma così accade, sovente, anche in campo laico e nell’arena politica – sul “caro estinto” si tessono lodi e lodi, mai accennando a qualche pur piccolo limite dello scomparso, non raramente in vita fieramente avversato.

Dunque, in morte di Giovanni Franzoni, dico subito che lui non mi sembrava perfetto. A volte era cocciuto: con me – cultore della precisione dell’Ansa… – gli capitava di insistere all’inverosimile nell’attribuire a un dato Concilio del lontano passato un’affermazione che era invece di un altro, e cedeva di malavoglia quando gli portavo un volume che dimostrava in modo irrefutabile il suo qui pro quo. Altre volte, in un articolo su un determinato argomento si perdeva in parentesi, e in parentesi nelle parentesi, uno stile che avrebbe disorientato chi lo avrebbe letto; ma bisognava faticare per indurlo a tralasciare dettagli ridondanti, e andare al sodo.

Con la vecchiaia, e la cecità, quando in Comunità interveniva durante l’Eucaristia, a commento delle letture del giorno, a volte tendeva a ripetere un’idea pur già più volte espressa nelle domeniche precedenti, il che ogni tanto spazientiva qualche ascoltatore. Insomma, Giovanni aveva questi, e altri, limiti oggettivi e soggettivi di vario tipo. Non era un santo, né un santino. Era, però, un uomo vero: mite, generoso, determinato, disposto a pagare un alto prezzo personale per sostenere idee e scelte che riteneva giuste. Ed era un discepolo di Gesù di Nazareth di straordinaria caratura – se è lecito dall’esterno dare un tale giudizio che, ovviamente, non intende entrare nel segreto della coscienza e nel mistero di Dio.

La mia opinione – altri, nella variegata cattolicità italiana, la pensano diversamente: avranno le loro ragioni – era, ed è, che Giovanni sia stata una delle persone che più, negli ultimi decenni, hanno onorato e resa bella la Chiesa cattolica; anzi, la Chiesa universale; anzi la Ekklesìa tout court. Qualcuno penserà che questo mio giudizio sia motivato dall’affetto (una consuetudine con lui di quarantasei anni!), e sia, dunque, fragile e parziale. Tuttavia, ritengo, contra facta non valent argumenta. E che fatti!

Da “padre” conciliare a… “La terra è di Dio”

Nato nel 1928 in Bulgaria – ove i genitori si trovavano per lavoro – Mario crebbe poi a Firenze; dopo il liceo entrò, a Roma, al collegio ecclesiastico Capranica e quindi tra i benedettini (assumendo il nome religioso di Giovanni Battista, sempre poi da lui usato), studiando al Pontificio Ateneo sant’Anselmo. Nel marzo 1964 fu eletto dai monaci abate di San Paolo fuori le Mura e, perciò, divenne membro della Cei e “padre” conciliare alle ultime due sessioni del Vaticano II. Egli – me l’ha ripetuto molte volte – entrò in Concilio come “conservatore”, ma ben presto “si convertì”, e appoggiò i “progressisti” su tutti i temi-chiave (collegialità episcopale, la Chiesa come popolo di Dio che cammina nella storia, la partecipazione dei battezzati alla vita concreta della comunità cristiana, libertà religiosa, ripudio dell’antisemitismo, apertura ecumenica, dialogo con i seguaci di altre religioni e anche con i marxisti, insonne impegno per i diritti umani e per la pace nella giustizia). Tuttavia, egli non prese mai la parola in Concilio.

Alla sua conclusione si diede un gran da fare, nel piccolissimo territorio del quale era “ordinario” e con autorità magisteriale, per attuare, con la sua gente, quanto la Grande Assemblea aveva insegnato e prospettato. Il desiderio di inverare la “partecipazione del popolo di Dio” lo spinse a invitare i parrocchiani (San Paolo, allora, era anche parrocchia) a incontrarsi con lui, il sabato sera, nella “sala rossa” – così chiamata per via del broccato rosso che adornava le pareti – per riflettere insieme sulle lettura bibliche dell’indomani. Fu in questo scambio che, sollecitato dalla gente – operai, operaie, insegnanti, padri e madri di famiglia, teologi, universitari, impiegati/e – la sua esegesi delle letture sacre, esposta in basilica la domenica all’omelia della messa di mezzogiorno, si aprì sempre più a confrontarsi con l’oggi, spesso doloroso, di Roma, dell’Italia e del mondo dilaniato da guerre.

Giovanni aveva fiducia in ciò che veniva “dal basso”, e istintivamente vedeva con favore – seppure non acriticamente – i movimenti che, in vari paesi del mondo, tentavano di dare protagonismo e dignità a masse da secoli tenute ai margini. Anche in basilica, fu questo continuo rapportarsi con la gente – “La Chiesa è il popolo di Dio”, aveva affermato il Concilio – che lo spinse a crescenti prese di posizione pubbliche: la solidarietà agli operai licenziati da una fabbrica situata nella zona Ostiense; la nonviolenza come via per superare i conflitti tra i popoli; i digiuni per la pace in Vietnam ed in Bangladesh (quando scoppiò la guerra perché il Pakistan orientale voleva essere indipendente); l’invito (1970) al presidente della Repubblica Saragat di caratterizzare il 2 giugno, festa della Repubblica, non più con parate militari ma con rappresentanze della società civile e del mondo del lavoro.

La pace è sempre stata un suo grande assillo. Perciò, anche a livello minimo della parrocchia, favorì, per quanto poté, ogni iniziativa che, a suo parere, avvicinasse la pace nella giustizia là ove la “tranquillità dell’ordine” era violata. E, per fare qualche esempio, fu ben contento quando (anni 1971-72) due universitari che frequentavano la basilica andarono in Irlanda del Nord per un campo di lavoro organizzato dalla cattedrale inglese di Coventry. O una ragazza della parrocchia partì infermiera volontaria in una zona disastrata dell’Africa.

In questa scia – aiutato da persone che lo seguivano più da vicino, e non solo la domenica, e che erano sensibili a certe tematiche sociali, e alle nuove idee di Franco Basaglia – Giovanni decise di fare le pratiche necessarie per far uscire dal Santa Maria della Pietà (il manicomio di Roma) alcuni giovani che, senza famiglia, di fatto erano trattati come handicappati psichici, assumendosi la responsabilità del loro mantenimento e del loro – se possibile – inserimento sociale.

Come Confronti, poi, non possiamo dimenticare il ruolo decisivo avuto da Giovanni per la nascita, nel marzo 1972, di Com – giornale slegato dalle gerarchie ecclesiastiche, ma invece legatissimo alle esperienze delle Comunità cristiane di base e molto aperto ai “cattolici critici” – che, nell’autunno del ’74, si fonderà con un settimanale evangelico, dando vita a Com-Nuovi Tempi, trasformatosi poi, nel 1989, nel mensile Confronti. Franzoni fece sempre parte della redazione, dando un corposo contributo all’impostazione della rivista, per la quale scrisse numerosissimi articoli. Da dieci anni, poi, aveva una sua rubrica fissa, Note dal margine; il numero di luglio-agosto di quest’anno, chiuso pochi giorni prima della sua morte, riporta il suo intervento; e un altro suo scritto apparirà nel numero monografico di settembre (dedicato al fine-vita!), e da lui inviatoci l’11 luglio.

Naturalmente, incontrando la gente del quartiere ostiense, una zona popolare ove molti cattolici votavano a sinistra, Giovanni non poté evitare di affrontare un problema pastorale, oggi superato, ma allora incombente: il “dogma” dell’unità politica dei cattolici. In poche parole: secondo le gerarchie ecclesiastiche i cattolici coerenti dovevano votare per la Democrazia cristiana; chi, tra loro, votava Msi – “cattolicissimo”! – da esse era comunque ben tollerato; spiacenti erano quanti sceglievano i partiti “laici” (repubblicani e liberali, considerati “anticlericali”); intollerabili quanti votavano Psi e, peggio, Pci. E tra la gente che frequentava la “sala rossa”, vi erano molti socialisti e comunisti. Giovanni non ebbe nessuna difficoltà ad avere buoni rapporti con tutti. Oltretevere, però, erano irritati che egli ammettesse come legittimo, per un cattolico, votare anche a sinistra.

Per Franzoni, invece, il principio del rispetto del pluralismo politico doveva essere assolutamente garantito. Non vi erano – sosteneva – cattolici di serie A perché votavano un determinato partito e di serie B perché ne votavano un altro. Tuttavia, in quel preciso contesto storico, impegnarsi, come faceva lui, in alcuni temi sociali, o anche ecclesiali ma con inevitabili riflessi pubblici, significava spesso porsi in contrasto con la Dc al potere e, indirettamente, con le gerarchie ecclesiastiche filo-democristiane. Dunque, l’abate da più parti fu accusato di “fare politica”. Quei prelati che, invece, sostenevano pubblicamente, o di fatto, la Dc… non facevano politica, ma… solo “azione pastorale”!

Come abate di San Paolo, Giovanni accolse in basilica – con tutti gli onori – il patriarca di Costantinopoli, Athenagoras, e il papa copto Shenouda III, ambedue venuti a Roma per la prima volta (nel 1967 e nel ’73) a incontrare il romano pontefice, allora papa Montini; e favorì, accogliendoli nel monastero, i “Dialoghi paolini”, incontri di studiosi internazionali, cattolici ed evangelici, per approfondire la conoscenza dell’apostolo delle genti.

A proposito di un altro aspetto – il rinnovamento liturgico auspicato dal Concilio – egli sollecitò le persone presenti alle sue celebrazioni in basilica a intervenire spontaneamente alla “preghiera dei fedeli”: il che andò tranquillo, fino a che tali orazioni erano dedicate a pregare il Signore di aiutare la nonna inferma, o un figlio a trovar lavoro. Ci furono, però, anche invocazioni di altro tipo. Un tizio, che qui chiameremo Ottavio, e che era militante in un gruppo parafascista dedito a difendere la Civiltà cristiana come un tempo (1571) si fece a Lepanto contro i turchi, elencò una serie di iniziative di Giovanni da lui ritenute “pericolose”, e con voce altissima terminò il suo J’accuse con queste parole: «Abate Franzoni, sei un traditore!». Quest’attacco plateale non dispiacque a quella parte della Curia romana che riteneva Franzoni insopportabile, e che brigava per scalzarlo. Essa, invece, fu assai turbata da una “preghiera dei fedeli” di questo genere: «Ti prego Signore di far sì che quando mio figlio sarà grandicello non ci siano più nella Chiesa romana gli scandali dello Ior».

Il riferimento era a una denuncia, di quei giorni, di autorità internazionali che accusavano la banca vaticana di operazioni finanziarie torbide. A causa di questa “preghiera”, riportata in Curia da qualche zelante frequentatore delle messe dell’abate, Giovanni fu convocato Oltretevere, ove gli imposero il controllo delle preghiere “spontanee”. Al suo rifiuto di farlo («Come posso controllare le preghiere?»), e constatata la rigidità inflessibile dell’altra parte, egli comprese che il suo tempo come responsabile di una delle quattro basiliche maggiori di Roma stava per scadere. E accettò di dare le dimissioni, entro la metà di luglio. Perché non prima?

Si era all’inizio della primavera del 1973, e Giovanni, aiutato da un gruppo di persone di fiducia, stava ultimando La terra è di Dio. Si trattava di una lettera pastorale – per i fedeli del minuscolo territorio sul quale aveva giurisdizione e autorità magisteriale; ma che, naturalmente, spaziava oltre. In vista del Giubileo indetto da Paolo VI per il 1975 sul tema “Rinnovamento e riconciliazione”, in essa affrontava  il problema della terra, dono di Dio e “bene comune” e, in quel contesto, prospettava l’ideale della povertà della Chiesa e denunciava la speculazione edilizia a Roma, sostenuta anche da istituzioni legate al Vaticano.

Quella lettera, uscita a metà giugno mentre era in atto l’Assemblea generale della Cei, della quale Giovanni era membro di diritto in quanto abate della basilica ostiense, sollevò grande eco sia in campo ecclesiale che nell’opinione pubblica. Quel testo, comunque, segnò anche la fine dell’“abate rosso” – così veniva chiamato. Celebrata la festa di San Benedetto (11 luglio) scattarono le dimissioni: egli uscì per sempre dalla basilica, portando con sé solo una piccola valigetta con un minimo di vestiti, idealmente seguito da un notevole gruppo di donne e uomini che, nella “sala rossa”, erano diventati suoi amici. Nacque così la Comunità cristiana di base di san Paolo, che si collocò in uno stanzone a poche centinaia di metri dalla basilica, e che là il 2 settembre 1973 celebrò insieme a Giovanni, tornato semplice monaco, la sua prima Eucaristia.

Il referendum sul divorzio. La riduzione allo stato laicale

In vista del referendum sulla legge del divorzio, previsto per il 12 e 13 maggio 1974, agli inizi di quell’anno partì in Italia un’animata campagna politica (Dc e Msi erano per il “Sì” all’abolizione della legge; tutti gli altri partiti, per il “No”); da parte sua, in febbraio il Consiglio permanente della Cei, con una “Notificazione”, invitò fortemente i cattolici – come impegno morale – a votare per l’abrogazione di quella legge. Nell’aprile successivo Franzoni contrastò apertamente l’indicazione dei vescovi e, in un libretto intitolato Il mio regno non è di questo mondo, sostenne che anche i cattolici avevano il pieno diritto di votare in coscienza, come ritenevano meglio, e dunque anche per il No. In discussione – rilevò – non era il sacramento del matrimonio, ma una legge di uno Stato laico (e la difesa della laicità dello Stato fu un altro costante impegno di Giovanni). Ma, inesorabili, alla fine di quel mese le autorità ecclesiastiche sospesero Franzoni “a divinis”, cioè non poteva più, lecitamente, celebrare i sacramenti.

La punizione vaticana suscitò molte polemiche e, dal punto di vista canonico, lasciò più di un dubbio: che “delitto” aveva mai commesso l’ex abate? Aveva espresso un’opinione politica che si poteva condividere o meno; tuttavia, perché “sospenderlo”? Tanto più che, quando verso la fine di aprile le autorità religiose gli proibirono di tenere pubbliche conferenze sul referendum, egli obbedì; ma pochi giorni dopo lo punirono egualmente. Ad ogni modo, per un anno si astenne dal celebrare, ponendosi in attesa di un “ripensamento” delle autorità: che, però, non venne. Del resto, le remore e riserve vaticane allora non erano fondate su motivazioni teologiche, ma scaturivano da avversità politiche, come tutti noi comprendemmo bene.

Ritenendo comunque ingiusto il silenzio ufficiale, e partendo dal presupposto che la “sospensione a divinis” è, di regola, temporanea, in attesa di un chiarimento definitivo (assolutorio o condannatorio), Giovanni, vista la latitanza vaticana, alla Pasqua del ’75 decise di riprendere a celebrare. Tuttavia, come diremo più avanti, le celebrazioni nella Cdb di san Paolo avevano una non piccola particolarità liturgica e teologica che ridimensionava il ruolo del “sacerdote”.

Nel 1976, proprio su Com-Nuovi tempi, annunciò che alle elezioni politiche – si sarebbero tenute nel giugno di quell’anno – avrebbe votato Pci (partito del quale, sia detto per inciso, non prese mai la tessera). Conseguenza: ai primi di agosto fu ridotto allo stato laicale. Quale il motivo di una tale drastica punizione? Per capire, occorre, come sempre, situare l’evento nel suo contesto storico. Il 22 luglio ’76 Paolo VI aveva sospeso “a divinis” monsignor Marcel Lefebvre, il capo dei “tradizionalisti” che contestava radicalmente il Vaticano II e alcune riforme post-conciliari volute da papa Montini. La decisione del pontefice suscitò fortissime, seppur sotterranee, rimostranze da parte di quei porporati, di Curia e non, che ritenevano “esagerata” la misura contro il vescovo ribelle e, d’altra parte, giudicavano troppo condiscendente il pontefice verso un Franzoni considerato “debordante”. Insomma, accusavano il papa di punire solo “a destra” e di tollerare “a sinistra”.

Giovanni ci ha raccontato (l’aveva appreso da qualche prelato amico) delle febbrili ricerche, da parte vaticana, di un ecclesiastico “di sinistra” da punire, per calmare le accuse dei “conservatori”. Infine, Oltretevere si ritenne che punire lui fosse la misura più semplice, bi-partisan e a portata di mano. E così egli, dopo un grottesco processo-farsa istituito in gran fretta, e dove non ebbe la minima possibilità di difendersi adeguatamente, fu ridotto allo stato laicale. Da “padre” conciliare a laico! Come se l’essere laico nella Chiesa significasse far parte di una classe minore: eppure – notava Giovanni, con un pizzico di humour: un dono che lui aveva – Gesù era “laico” e non apparteneva alla classe sacerdotale del tempio. Più volte egli mi e ci narrò questa vicenda: sempre senza infierire sui suoi inquisitori e, anzi, benevolmente quasi cercando di trovare giustificazioni al loro operato.

La riflessione sui ministeri e sull’Eucaristia

Dall’agosto 1976 iniziò dunque la… seconda parte della vita di Giovanni, durata fino alla morte, e sempre mescolata – per la sua vicenda pubblica – con l’esperienza della Cdb san Paolo.

Già negli anni ’74-’75 si era molto discusso, in comunità, sul problema dei ministeri: che diceva, in proposito, il Nuovo Testamento? Le conclusioni alle quali, anche con l’assistenza di illustri esegeti (come il benedettino Jacques Dupont o il biblista Giuseppe Barbaglio), arrivammo, erano ben note al mondo teologico, ma non alla gente semplice: Gesù non ha mai previsto “sacerdoti” (=mediatori necessari tra Dio e l’uomo) per la sua Ekklesìa, ma solo dei multiformi ministeri (=servizi) per il suo bene-essere, aperti sia a uomini che donne, a prescindere dal loro stato di vita.

Dopo prolungate e accalorate discussioni, desiderosi di “riappropriarci dei ministeri”, pensammo di mantenere, grosso modo, lo schema della messa consueta, ma con varianti decisive: non ci sono paramenti; l’Eucaristia domenicale viene celebrata da tutte e tutti insieme, e perciò il canone (infine redatto da noi) viene letto coralmente da tutte e tutti i presenti; la Comunità, a prescindere se ci siano o no “preti” ordinati, spezza il pane memore della morte e della risurrezione di Gesù, il quale aveva detto: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18, 20). Il “laico” Giovanni accettò volentieri questo nuovo cammino.

Con il tempo la riflessione, anche teologica, ma partendo dalla prassi, sui ministeri e sull’Eucaristia, si è approfondita; e chi voglia saperne di più può leggere Fate questo in memoria di me. Condividere il pane nell’Eucaristia e nella vita – il contributo che la Cdb san Paolo inviò al Sinodo dei vescovi che nel 2005 avrebbe affrontato il tema dell’Eucaristia (testo completo in Adista documenti n. 6, 22-1-2005).

Il riferimento al Sinodo è l’occasione per dire che Giovanni, con la Cdb san Paolo, fece le scelte ecclesiali che ritenne, in scienza e coscienza, di dover fare; però non fu, e non si considerò mai un’isola felice, o una torre d’avorio. Al contrario: per apprendere più e meglio mantenne (mantenemmo) continui rapporti con esperienze similari, soprattutto in America Latina, in Italia e in Nord Europa. Chi può dimenticare, ad esempio, la visita che fece alla nostra Comunità il vescovo emerito di San Cristóbal de Las Casas, Samuel Ruiz, “naturalmente” anche lui in Messico emarginato per il suo impegno a fianco degli indios del Chiapas? L’abbraccio tra lui e Giovanni fu commovente. E così fu con vescovi brasiliani che presero parte alle nostre celebrazioni eucaristiche.

In Comunità venne anche monsignor Clemente Riva († 1999), vescovo ausiliare responsabile della zona Sud di Roma, il quale in sostanza ci riconobbe «come una realtà di fede della zona pastorale di mia responsabilità».

A livello di Sinodi, poi, la nostra Cdb inviò a varie Assemblee le proprie riflessioni sul tema in esame. Nessuno mai, né sotto papa Wojtyla né sotto papa Ratzinger, dal Vaticano rispose dando almeno un segno di ricevuta. Ciò, invece, è avvenuto sotto papa Bergoglio: quando la Cdb inviò le sue proposte per i Sinodi del 2014 e ’15 sul problema della famiglia (e dell’eventuale ammissione all’Eucaristia delle persone divorziate e risposate), ricevemmo un segnale di ricezione.

Prima della celebrazione eucaristica in comunità, la domenica Giovanni raccoglieva i bambini (dai sei anni in su) e i ragazzi in quello che aveva chiamato “Laboratorio di religione”. In quell’ambiente si parlava di Dio, di Gesù, di Bibbia, di Chiese, di religioni, di mondo: ma in un clima di straordinario dialogo che permetteva a ciascuno/a di sentirsi non gravato da nozioni e imposizioni ma, piuttosto, protagonista in una ricerca che aiutava la libertà a dischiudersi. Era proprio un “laboratorio” di gioia, di responsabilità e di continua scoperta.

In Comunità hanno trovato piena accoglienza anche i gruppi organizzati di omosessuali cristiani.

Un cattolico marginale

Molti sono i libri scritti da Giovanni “laico”. Si rimane meravigliati nel vedere quanti temi egli abbia toccato, e come abbia osato affrontare anche argomenti tabù, proponendo soluzioni ardite. Con Il diavolo, mio fratello Franzoni riprende la tesi di Origene (III secolo), secondo il quale in un futuro indefinito il Signore avrebbe ricomposto l’ordine turbato del cosmo e delle sue creature, e avrebbe salvato anche Satana. In molti scritti, poi, Giovanni ha ribadito la sua convinzione: l’inferno non è eterno. Una dannazione “eterna” – egli affermava – era impensabile con la misericordia straripante di Dio.

Più volte Giovanni ha scritto sui Giubilei, considerandoli – sul fondamento delle Scritture ebraiche – come momenti alti di restituzione della dignità alle persone schiacciate dall’ingiustizia, e come occasione propizia per «fare riposare la terra» spesso rapinata da mani crudeli ed egoiste.

Quando, dopo che nell’estate del 2005 fu avviato l’iter per la beatificazione di Giovanni Paolo II, anch’egli a Roma fu chiamato, dal Tribunale ecclesiastico, a testimoniare: in un documentato memorandum egli spiegò le ragioni per le quali, a suo parere, papa Wojtyla non potesse essere beatificato (quel pontefice – rilevava tra l’altro Franzoni – aveva punito la libertà teologica nella Chiesa, impedito di accertare gli affari torbidi dello Ior, e isolato monsignor Oscar Romero); ma nessuno tenne poi conto del suo parere negativo.

Sul piano ecumenico, Giovanni ha favorito la “ospitalità eucaristica”: qualche volta la Cdb san Paolo è andata a piazza Cavour a partecipare alla Santa Cena celebrata nel tempio valdese; e qualche volta è venuto alla nostra Eucaristia un gruppo di valdesi e di altre Chiese legate alla Riforma. Inoltre, nel 2007 è stato a Sibiu, Romania, per la III Assemblea ecumenica europea.

Un altro tema al quale Franzoni ha dedicato vari libri è quello legato al fine-vita, e al rispetto della volontà di chi, tenuto in vita artificialmente per anni, chiede che gli sia “staccata la spina”. Perciò quando – dicembre 2006 – il cardinale Camillo Ruini, vicario di Roma, d’accordo con Benedetto XVI, negò i funerali in chiesa di Piergiorgio Welby, perché – a suo parere – si era suicidato, pochi giorni dopo Giovanni con la Cdb invitarono la moglie di Piergiorgio, Mina, ad un’Eucaristia in ricordo dello scomparso, del quale condividemmo – sul piano morale – la piena legittimità, umana e cristiana, della sua scelta.

In molti libri Giovanni ha toccato il tema donna. Inutile dire che egli – che nel 1981 nel referendum sull’aborto difese il diritto della donna a decidere – sognò una Chiesa ove i ministeri fossero aperti a donne e uomini, a prescindere dal loro stato di vita (matrimoniale o meno). Nel 1990 Giovanni aveva sposato Yukiko, una giapponese con la quale egli ebbe modo di confrontarsi, non senza difficoltà, su culture assai differenti da quelle occidentali ma, proprio per questo, capaci di dischiudergli nuovi orizzonti.

Negli ultimi anni Giovanni – sempre difensore del diritto dei palestinesi ad avere anche loro uno Stato, accanto a quello di Israele – aveva “riscoperto” l’ebraismo, leggendo il Talmud. Questa prospettiva aveva offerto a Franzoni interpretazioni inedite, e particolarmente arricchenti, dei rabbini sui miti delle origini come narrati nel Genesi. Per questa via, egli aveva iniziato a porre profonde e motivate domande critiche all’intera costruzione dogmatica cattolica sul “peccato originale”.

L’ultima preoccupazione (in ordine di tempo) che Giovanni più volte espresse in quest’anno 2017, da Pasqua in poi, era questa: mentre procediamo fiduciosi e determinati nel nostro cammino dovremmo anche – sottolineava – guardare dietro di noi, per cercare di spiegarci con chi, soprattutto in una parte del clero, non riusciva assolutamente ad accettare le nostre posizioni, sperando di giungere, pur magari senza arrivare ad una conclusione unanime, a stringerci la mano. Un’ipotesi – secondo molti di noi – francamente utopistica: ma Giovanni ci teneva moltissimo a fare questo sforzo e questo tentativo. Così ipotizzava di andare in Molise a parlare con quei cinque parroci che avevano fatto suonare le campane a morto quando la Camera in aprile aveva approvato la legge sul fine-vita.

A parte i suoi libri, praticamente su ogni numero di Confronti Giovanni affrontava un tema scomodo e, come precisava il titolo della sua ultima rubrica, lo faceva “dal margine”. Adesso la sua assenza ci peserà davvero. Speriamo di saper tener vivo il suo spirito, e di far crescere la sua eredità, straordinariamente ricca di valori, di ipotesi, di sfide, di sogni e di speranze.

Decine e decine di testimonianze, al suo funerale, hanno mostrato come la parola e l’esempio di Giovanni abbiano aiutato ragazze e ragazzi di un tempo – oggi donne e uomini maturi – a vivere in modo responsabile, con il cuore ben aperto per rimanere solidali con i curvati dalla vita e dalle ingiustizie del mondo. Molte di queste persone si sono dichiarate non più cristiane, o non più credenti. Parlando, negli ultimi mesi, di questo fenomeno, già ampiamente noto, Giovanni mi diceva, sereno e sorridente: «Lo dicono loro di non essere più credenti. Invece, forse lo sono più di me. E, comunque, saranno in prima fila tra i “benedetti dal Padre mio” quando il Cristo glorioso dirà loro: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare”».

Dopo l’Eucaristia di domenica 2 luglio scorso, toccava a me, per turno, invitare Giovanni a pranzo. Essendo lui cieco, occorreva guidarlo con prudenza sul marciapiede, verso il vicino ristorante “Al Biondo Tevere”, luogo storico di ristoro per la nostra Cdb. Faceva un caldo tremendo, ma sotto un pergolato si poteva respirare. Affrontammo tantissimi argomenti: la cifra del nostro parlare fu la sua dolcezza nel ripensare al suo passato ecclesiale con benevolenza verso chi, nelle gerarchie vaticane, lo aveva fatto tanto soffrire. Io lo guardavo: la sua pelle raggrinzita era trasparente, quasi si vedevano le ossa. Faticava a inghiottire un boccone. Sembrava esausto. Immaginai abbastanza prossima la sua fine per i molti acciacchi, e gravi mali, che lo minacciavano; ma non la pensavo imminente.

Martedì 11 luglio ci sentimmo al telefono: mi domandò se avevo ricevuto il suo commento per Confronti di settembre – il numero monografico che si prepara già in luglio, e quest’anno, guarda caso!, dedicato al fine-vita. Ero, io, infatti, il “revisore” dei suoi pezzi che egli, cieco, dettava – come se li leggesse, ma li aveva pensati a memoria! – ad un giovane collaboratore scelto proprio per questo aiuto. Alla mia conferma che avevo letto, e… dato l’ok, era tutto felice. E, dopo un ultimo giro di riflessioni, che spaziavano dall’Italia al mondo, dalle guerre in Medio Oriente ai molti limiti e alle inadeguatezze della nostra Comunità, Giovanni se ne venne fuori con queste parole: «Ah Luigi!, noi passiamo, ma l’amore di Dio resta». Ci salutammo festosamente dandoci l’arrivederci per domenica 16 luglio in comunità: aveva la sua solita voce, chiara, squillante, di una persona malgrado tutto felice di vivere. Sorella morte, però, decise diversamente.

La mattina di giovedì 13 luglio, a Canneto (Rieti), ove abitava, si alzò regolarmente e si intrattenne con varie persone fin verso mezzogiorno. A quell’ora disse a Yukiko di sentirsi un poco affaticato, e si coricò in una stanzetta vicino alla cucina. Verso le 13 la moglie lo chiamò: «Giovanni, il pranzo è pronto». «Eccomi», rispose lui con voce allegra. Passò qualche minuto di silenzio; non vedendolo arrivare, Yukiko entrò nella stanza: lo trovò con una gamba fuori dal letto come per alzarsi, ma ormai morto – per infarto – senza fare nessun lamento. Avvertiti da lei, già nel primo pomeriggio, in molti della comunità accorremmo a dare l’ultimo abbraccio a Giovanni.

Trasportata la sera di venerdì 14 in Comunità, a Roma, la sua salma è stata vegliata da noi, a turni, tutta la notte. A pregare di fronte alla bara è venuto – accompagnato da don Isidoro, un suo antico amico dai tempi dell’abbazia, e da un giovane monaco – anche il nuovo abate di san Paolo, don Roberto Dotta. Nei mesi scorsi i due si erano incontrati, e tra loro era nata una bella amicizia che rasserenava Giovanni. Il quale sperava vivamente di incontrare anche papa Francesco, perché tramite don Roberto gli aveva fatto pervenire la sua autobiografia, con un’intensa dedica; ma non è stato possibile. L’abate di san Paolo, con i due monaci (iniziativa, abbiamo motivo di pensare, della quale il papa era al corrente, e consenziente) ha partecipato anche ai funerali di Franzoni: una presenza consolante. Quando, portata a spalla dai giovani della nostra Comunità, la bara di Giovanni attraversava il parco Schuster per entrare nel Centro anziani dove sarebbero state celebrate le esequie, le campane della basilica ostiense suonarono. Così aveva deciso don Roberto.

C’era anche, alle esequie, monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas di Roma. E, dal Piemonte, in morte di Giovanni, monsignor Luigi Bettazzi (classe 1923!), già vescovo di Ivrea, aveva ricordato con parole affettuose il “collega” di Concilio.

Ai funerali, affollatissimi, erano presenti – a titolo personale o delegati delle rispettive comunità – anche evangelici di varie Chiese legate alla Riforma, e musulmani. Tra i convenuti, che poi si sono comunicati in massa, anche numerosi presbìteri e molte suore, e amici venuti da lontano. Sul fronte ufficiale ci si aspettava, ovviamente, una qualche più evidente partecipazione delle autorità vaticane, e della Cei, per l’ultimo saluto ad un “padre” conciliare. Così non è stato: e queste assenze non possono non porre domande ineludibili all’intera Chiesa cattolica italiana.

Però sappiamo bene che Giovanni non avrebbe voluto, da parte nostra, recriminazioni di sorta. Come lui non recriminò, ma risolse il tutto con una battuta bonaria, quando il 12 ottobre 2012 Benedetto XVI aveva invitato in udienza e a pranzo tutti i vescovi, ancora viventi e capaci, malgrado l’età avanzata, di viaggiare, che avevano partecipato al Concilio aperto da Giovanni XXIII cinquant’anni prima, l’11 ottobre 1962. Il “padre” conciliare Franzoni non fu però invitato. Si vede che in Vaticano era considerato – per dirla con parole spesso ripetute da Jorge Mario Bergoglio per altre categorie di persone umiliate – uno “scarto”. Giovanni rimase un pochino mortificato per essere stato ignorato; ma con noi non lo fece pesare, né pronunciò parole amare per quest’ennesimo sgarbo. Epperò fino alla fine egli, per l’istituzione ecclesiastica, è rimasto un “segno di contraddizione”, indigeribile.

 

Adesso si volta pagina. Giovanni non c’è più: noi, però, faremo il possibile per onorare la sua eredità. E abbiamo perfino un lembo di speranza che la sua Chiesa – la cattolica romana, nelle sue varie articolazioni, in particolare la Santa Sede e la Cei – arrivi finalmente ad avere l’ardimento di rimettere sul candelabro ecclesiale colui che, secondo molti, è stato un profeta del nostro tempo; e a riflettere, con coraggio autocritico, sulle vicende del 1974-76, che portarono – tra l’altro – Giovanni, con molti altri ed altre, ad essere un “cattolico marginale”, come lui fu definito dell’editore della sua autobiografia. “Marginale” fin che si vuole, ma davvero “cattolico” per aver tentato, con alterne fortune, di affrontare, alla luce del sole, e tuttavia praticamente ignorato dall’ufficialità istituzionale e dal mondo teologico cattolico, asperrimi problemi teologici, antropologici ed etici.

Egli affrontò consapevolmente la sfida – ardua, affascinante e dolorosa – di cercare di vivere l’evangelo in una società complessa, “liquida” e difficile come la nostra, e in una Chiesa, in alcune sue parti istituzionali e non, del “consenso” e del “dissenso”, talora lenta ad accogliere le beatitudini proclamate da Gesù, ben sapendo che il Suo regno non è di questo mondo.

Roma, 21 luglio 2017

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