Per rievocare Don Giuseppe un ricordo di Enzo Bianchi apparso sulla “Stampa” del 10 Febbraio
Nel centenario della nascita di Giuseppe Dossetti (13 febbraio 1913), alle molte iniziative per ricordare quella straordinaria figura di uomo politico e di cristiano del secolo scorso si sono anche contrapposte – e c’era da aspettarselo – voci critiche su di lui e la sua opera. Questo perché Dossetti è tuttora una presenza ispirante in Italia, un personaggio capace di fornire argomenti per i confronti ancora in corso. Purtroppo in questo dibattito, cosa inconsueta, proprio nell’ambito ecclesiale si registra un pesante silenzio nel quale si levano alcuni interventi accaniti, tesi a delegittimare la sua figura. Questo provoca in molti cristiani una grande sofferenza, fa emergere quanta ingratitudine possa annidarsi in spazi ecclesiali e quanta insensatezza possa ispirare alcuni ecclesiastici.
Si dice che Dossetti non era un teologo, che nel suo pensiero c’erano lacune perché la sua formazione era quella di un giurista e il suo curriculum era privo di studi di teologia in una facoltà cattolica, senza ricordare che tratti analoghi sono riscontrabili anche in grandi Padri della Chiesa, a cominciare da sant’Ambrogio… Si dice che avesse di Israele quale popolo di Dio e della sua salvezza una lettura non conforme alla dottrina cattolica, quando in realtà egli si interrogava su posizioni teologiche emerse nella Chiesa cattolica all’inizio degli Anni Ottanta, senza mai giungere a sostenere che per gli ebrei fosse possibile una salvezza senza Cristo. Se Giovanni Paolo II con audacia – che non mancò di sorprendere persino molti tra quanti erano impegnati nel dialogo ebraico-cristiano – era giunto ad affermare nella sinagoga di Magonza che Israele è «il popolo di Dio dell’antica alleanza mai revocata», significa che essa è tuttora in vigore e, come ci insegna la Scrittura, è un’alleanza di salvezza. Ma questo non equivale certo a una salvezza senza Cristo, senza il Messia promesso e atteso dal popolo della prima alleanza. Solo Gesù Cristo è il salvatore di tutti, e questa verità di fede era in don Giuseppe Dossetti una confessione salda e incrollabile come roccia.
Vi è anche chi critica il dossettismo come via politica, e su questo è più che giusto lasciare che le interpretazioni restino diverse come sempre sono state, purché non si finisca col mettere in contraddizione tra loro la fede cattolica di Dossetti e il suo impegno politico precedente la scelta presbiterale e monastica. Ma è sull’aspetto cristiano ed ecclesiale che ritengo di poter dire alcune parole più personali.
Ho incontrato per la prima volta don Giuseppe a Monteveglio nel novembre 1966: dopo aver ascoltato la sua omelia, ebbi la possibilità di un dialogo personale con lui su temi ecumenici e monastici. Io ero giovanissimo, mentre lui aveva da poco terminato la sua preziosissima opera al Concilio, dove aveva fornito un apporto decisivo di studio, di consigli e di elaborazione di proposte,
coadiuvando in particolare il suo vescovo, il cardinal Lercaro di Bologna. Quell’uomo mi diede subito l’impressione di essere un cristiano «morsicato» dal radicalismo evangelico, un monaco rigoroso, consapevole di essere stato posto come sentinella sulle mura della Chiesa per gridare, a tempo e fuori tempo, di notte e di giorno, le esigenze del Vangelo.
Quando nelle lunghe veglie a Monteveglio, in Terrasanta, a Montesole commentava la parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, sembrava di ascoltare un Padre della Chiesa: si sentiva la sua competenza linguistica per la lettura dei testi nella lingua originale, la sua conoscenza dei Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, la frequentazione dell’esegesi storico-critica della seconda metà del secolo scorso. Verso quest’ultima nutriva a volte dei timori e per questo preferiva la lettura «in ecclesia», nel solco della grande tradizione, una lettura pregata. Leggendo i volumi finora editi delle sue omelie, non si finisce mai di imparare, di conoscere in profondità il messaggio delle Scritture di Israele e della Chiesa.
Dossetti era un cristiano «obbedientissimo», che si imponeva di non criticare l’autorità della Chiesa,soprattutto i suoi vescovi, anche quando non era d’accordo e il suo giudizio sarebbe potuto sembrare contestazione. Allora preferiva tacere. Anche per questo lasciò l’Italia e con alcuni fratelli e sorelle andò in terra d’Israele. Mentre don Giuseppe risiedeva a Gerico, sostai cento giorni a Gerusalemme e potei incontrarlo più volte, e anche p. Carlo Maria Martini, allora all’Istituto biblico di Gerusalemme, veniva ad ascoltare le sue omelie. Ricordo che Dossetti passava ore in preghiera al santo Sepolcro. A Gerico viveva in baracche precarie, in un clima a volte torrido, e per le sue salite a Gerusalemme viaggiava su autobus stracolmi di arabi poveri. Un uomo di famiglia agiata, che era stato deputato della Repubblica e un’autorità morale nella Chiesa, avviandosi verso l’anzianità aveva intensificato la sua sobrietà conducendo una vita da povero, segnata dall’ascesi, da pesanti disagi e da un anonimato quotidiano nei territori palestinesi occupati da Israele. Vescovi e cardinali, semplici e poveri cristiani, personaggi importanti della vita sociale, giovani, non credenti, andavano a cercare una sua parola e lui sovente si sottraeva, quasi nascondendosi. Si diceva frequentemente: «Com’è difficile incontrare don Giuseppe!». Ma negli incontri i suoi occhi lampeggiavano, quando faceva discernimento alla luce della parola di Dio, quando cercava di leggere i «segni dei tempi» ascoltando anche l’umanità: la sua parola era tagliente come spada e possedeva un’autorevolezza rara. Come per Antonio, il grande Padre del deserto, di lui si potrebbe dire: «Bastava vederlo».
Quante volte, anche dopo il suo rientro in Italia, sono andato da Dossetti per confrontare le nostre sollecitudini e le nostre ansie, per comprendere maggiormente dove stavamo andando come cristiani: le sue parole erano frutto di preghiera, di assiduità con la Bibbia, di liturgia eucaristica e di letture diversissime. Davvero una vita segnata da una coerenza che altri non riuscirebbero nemmeno a pensare. È veramente triste che oggi la sua Chiesa non lo riconosca. Ma in questo tempo il vento soffia in direzione contraria, e don Giuseppe l’aveva umilmente previsto e denunciato. Da parte mia, nei suoi confronti mi sento di osare una parola forte, con la libertà di chi non è stato suo discepolo ma, anzi, ha avuto sguardi diversi sul monachesimo nel mondo di oggi e sulle altre Chiese cristiane: era veramente un santo, un uomo di Dio e di nessun altro!
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