Fede e Spiritualità
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Charles de Foucauld, dopo anni che è chiuso nella Trappa a pensare al lavoro dei campi e alla preghiera più impegnata, una sera riceve l’invito dal suo superiore di andare a pregare in un vicino arabo: È morto un nostro vicino, arabo, povero. Vai a visitarlo, passaci la notte; pregherai un po’». Esce dalla Trappa e va nella capannuccia dell’arabo cristiano. Si trova davanti a questo cadavere, e vede attorno la miseria dei popoli sottosviluppati: sette, |
otto bambini affamati, una donna in lacrime e una casa che cola miseria da ogni lato.
Quella notte determinò la crisi che lo condusse ad uscire dalla Trappa e a fondare i Piccoli Fratelli.
Disse: «Se è vero che nella Chiesa c’è una gerarchia di valori, determinata dalla croce, questi uomini ci sopravanzano di molto.
Noi che abbiamo scelto Cristo come il nostro unico modello, come la nostra guida, come colui a cui dobbiamo conformarci, se Cristo ha rappresentato l’apice della sua adorazione al Padre nel momento in cui esprime 1’amore per il Padre con l’offerta totale di sé, goccia a goccia, questa povera gente ci sopravanza di molto sulla strada della croce.
Noi abbiamo una situazione calma, pacifica, ci appoggiamo a vicenda, questa gente, lasciata dinanzi al dramma del pane del domani che non è mai sicuro, in una insicurezza totale, questa gente rappresenta per noi un richiamo».
E allora sogna di fare un’altra Trappa.
È sempre fedele alla Trappa; è troppo contemplativo per dubitare che bisogna raggiungere Iddio e fissarsi in Lui.
Ma voleva che questa vita contemplativa fosse accanto ai poveri.
Quindi disse: «La mia Trappa deve essere una casetta piccola come quella di Nazareth, dove saremo solo in tre. Perché se siamo in pochi possiamo avere la porta aperta. ».
E sognò la sua Fraternità come una casa, così piccola che si confondesse con la casa d’un povero operaio.
In fondo presentava al mondo di oggi l’ideale di una vita nella quale la contemplazione, e l’impegno giorno per giorno con i poveri fratelli, nella miseria e nel peso quotidiano, potevano trovare la sintesi.
L’estesa caduta in disuso, almeno in Occidente, del digiuno nella pratica religiosa delle comunità ecclesiali, ivi incluse quelle di vita consacrata, espone facilmente l’opera che il lettore ha tra le mani al rischio di essere classificata tra i reperti di una certa “archeologia spirituale”, utile a qualche specialista e magari a chi ama soddisfare qualche esotica curiosità intellettuale. Se però si pone attenzione alla centralità crescente occupata dalle tematiche legate alla rinuncia al cibo e persino al rifiuto del cibo – fenomeni in buona parte speculari a quelli, anch’essi tipici del nostro Occidente, della sovrabbondanza e dell’abuso di cibo – si comprende come un’antologia patristica sul digiuno possa allora svolgere il compito prezioso di fare ascoltare “voci lontane” in un dibattito di strettissima attualità e dai molteplici risvolti.
È in questa centralità del non-cibo che si nasconde d’altra parte un altro ostacolo, giacché è proprio la quantità di “filosofie” che oggi stimolano, propagandano, propugnano la rinuncia al cibo, a togliere visibilità al “senso cristiano” del digiuno, fino a eclissarlo del tutto.
La scena risulta infatti dominata da quattro potenti protagonisti. C’è prima di tutto “dieta”, paroletta magica e oggi onnipotente, che nella sua derivazione greca (diaita) ha una stretta parentela con zàô, e indica quindi la vita, il modo di vivere, da qui la regola alimentare caratterizzante un buon regime di vita. Lo scopo può essere terapeutico oppure estetico, oppure entrambi insieme; l’importante è che, tenendo in mano due corni così cruciali nella concezione del benessere oggi predominante, Dieta ha tutti i requisiti per rendere obsoleta, incomprensibile, inutile qualsiasi altra motivazione di rinuncia al cibo, prima tra tutte quella religiosa. A meno che non sia in questione uno “sciopero della fame”.
Si pensi infatti a quelle espressioni di digiuno che assumono la forme della protesta, della contestazione, della solidarietà con chi subisce un’ingiustizia. La rinuncia al cibo connotata da simili scopi gode nel tempo presente di un alto prestigio morale per la sua natura eminentemente pacifica e per il fatto che a pagarne il prezzo, sulla propria pelle, è proprio chi lo pratica. La varietà e il carattere laico (anche quando a essere coinvolti sono “uomini di religione”) dei motivi che spingono a intraprendere lo sciopero della fame, restringono però ulteriormente lo spazio oggi lasciato al tipo di digiuno nel quale il lettore si imbatterà attraverso le antiche testimonianze letterarie raccolte in questo volume.
Un terzo formidabile antagonista a questo digiuno perduto è rappresentato dal fenomeno del rifiuto del cibo che assume forme patologiche, che risulta dotato, tra altre cose, di una potenziale carica di concorrenza particolarmente ambigua e insidiosa nei confronti del digiuno religioso. Ci riferiamo all’anoressia “isterica” o “nervosa”, che dal XIX secolo ha annesso formalmente al campo della medicina il comportamento di astensione volontaria al cibo, la rinuncia al bisogno vitale di nutrimento. La complessità di una patologia che interessa in modo particolare il mondo giovanile, e in esso soprattutto la componente femminile, include infatti anche la possibilità di intravedere un legame profondo proprio con le antiche esperienze ascetiche. Nella presentazione all’edizione italiana del saggio di due grandi specialisti belgi, dal titolo estremamente eloquente e provocativo,[ si afferma che «le analogie tra il comportamento di un’adolescente anoressica e quello di un’asceta sono molte: la ricerca della privazione, la negazione e la frustrazione dei bisogni del corpo, il controllo degli istinti, la tendenza al sacrificio, le distorsioni percettive indotte dal digiuno, l’aspirazione all’immortalità, il rapporto con un’immagine ideale, la vicinanza e la contiguità con la morte». Le differenze profonde tra l’ascetismo religioso, che spinge alla sublimazione, e quello che rimanda a una patologia narcisistica, dominata da un Io rigoroso ed esigente, non sono negate; al tempo stesso però si fa notare i punti di contatto tra l’ideale delle anoressiche, che è quello di non avere bisogni e necessità, di prendere le distanze dalla creaturalità del proprio corpo, e quello dei mistici, per i quali «l’annullamento, la scomparsa del corpo è la condizione e, contemporaneamente, l’effetto della vicinanza a Dio, della totale pienezza dell’essere: “il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”». È con questa chiave interpretativa che dobbiamo rileggere, ad esempio, il celebre racconto del digiuno di quaranta giorni di Simeone lo Stilita, a imitazione di quello di Mosè ed Elia?[1] Vi troviamo la messa in guardia contro il pericolo di un terribile atto d’orgoglio, l’invito rivolto al santo asceta a «non credere che fosse virtù un suicidio, perché esso è la più grande e la prima delle colpe». A questa prudente e paterna obiezione c’è la risposta di Simeone, che ammanta di astuta condiscendenza una determinazione irremovibile: «Mettimi da parte dieci pani e un boccale d’acqua e, se vedo che il mio corpo ha bisogno di nutrimento, li prenderò». Vi troviamo la solitudine, anzi l’isolamento dell’astinente, garantito da una specie di atto notarile: la porta della celletta viene chiusa e sigillata con il fango. Tutto il dramma tende insomma all’esito finale, testimoniato da chi penetra in quel luogo segreto una volta trascorsi i quaranta giorni e trova «il numero dei pani intatto, il boccale dell’acqua ancora pieno e lui riverso, senza respiro, incapace di muoversi». Ma vivo, e trasfigurato.
Ha diritto di rimanere, un racconto come questo, nel repertorio di quella agiografia che per secoli ha nutrito in Oriente la devozione personale e l’ammirazione per una delle personalità più universalmente note dell’Oriente cristiano, o riceverebbe invece collocazione più appropriata nella letteratura medica sui disturbi del comportamento alimentare, eccellente caso di studio?
Va segnalato un ultimo elemento antagonista, potenziale fattore di eclissi del digiuno cristiano perduto. Esso si sta imponendo grazie alle profonde trasformazioni demografiche in atto in Europa, e per necessaria conseguenza in Italia, a causa dei moti migratori che portano alla formazione di sempre più estese comunità di uomini e donne provenienti da altri paesi e cultura. Il patrimonio religioso di questi nuovi cittadini europei è in molti casi l’elemento più significativo di ciò che essi portano con sé dai luoghi d’origine. Con particolare riguardo all’islam (ma con modalità differenti il discorso vale anche per le religioni dell’estremo oriente), la pratica del digiuno risulta essere elemento di assoluta centralità dell’identità religiosa e mostra la sua forza all’intero corpo sociale. Attraverso l’astensione dal cibo e dalla bevanda in tutti i luoghi pubblici e privati, dall’alba al tramonto, il digiuno ha qui la forza di disegnare il perimetro di una comunità pluri-etnica, unita e solidale nell’atto del culto. L’eclissi si opera qui all’interno dello stesso universo religioso, e non più solo dall’esterno come nei casi precedenti, nel momento in cui il digiuno gradualmente viene percepito come pratica tipica e vitale solo di altre fedi e religioni.
La presente antologia fa dunque parlare i Padri su un tema reso attuale dagli svariati aspetti qui sommariamente richiamati. L’articolazione dell’Introduzione in due sezioni consente di mostrare come tale pratica non nasca dal nulla, ma in dialogo e contatto con i mondi religiosi e culturali nei quali il digiuno cristiano nacque e sviluppò poi i suoi tratti specifici. I tredici autori dell’antologia – tre per l’area siriaca,
quattro per quella latina, sei per quella greca – non possono esaurire tutta la varietà offerta dalle differenti anime del cristianesimo di età patristica ma ne sono indubbiamente un buon campione. Il digiuno è presentato nel suo alto significato individuale e collettivo, nella sua portata spirituale aperta tanto al cristiano impegnato in una via di particolare ascesi quanto a quello ancora pienamente mescolato nelle faccende nel mondo, nella sua indole penitenziale e in quella “imitativa”, pezzo non esclusivo ma comunque importante della sequela di quel Maestro che ha lasciato l’esempio e le motivazioni del digiuno del battezzato. In questo orientamento cristologico sta in definitiva il nocciolo della specificità del digiuno dei cristiani, quindi della sua vitale attualità e della capacità di essere fermento di bontà in una società caratterizzata sempre più dalla pluralità delle voci.
Di recente ospite della trasmissione di Fabio Fazio è stato Hans Küng, sacerdote, teologo, filosofo svizzero, e dal 1996 professore emerito di Teologia ecumenica presso l’Università di Tubinga. |
Definito il teologo ribelle, poiché contro il dogmatismo religioso, Küng ha da poco ultimato il suo nuovo saggio intitolato Ciò che credo: “Credere è avere una fiducia ragionevole, nella vita, in Dio” dice. Egli sostiene di credere prima di tutto nella vita terrena e poi in quella ultraterrena, ed invita ad avere fiducia nella vita, nella realtà e nelle altre persone prima di tutto: “Io voglio avere una fede in Dio fondata nella vita” conferma.
Di recente un’accorata lettera ai vescovi, che riportiamo di seguito , con riflessioni che più che suscitare polemiche ci dovrebbero stimolare ad una attenta ed onesta riflessione sui temi trattati
Negli anni 1962-1965 Joseph Ratzinger – oggi Benedetto XVI – ed io eravamo i due più giovani teologi del Concilio. Oggi siamo i più anziani, e i soli ancora in piena attività. Ho sempre inteso il mio impegno teologico come un servizio alla Chiesa. Per questo, mosso da preoccupazione per la crisi di fiducia in cui versa questa nostra Chiesa, la più profonda che si ricordi dai tempi della Riforma ad oggi, mi rivolgo a voi, in occasione del quinto anniversario dell’elezione di papa Benedetto al soglio pontificio, con una lettera aperta. È questo infatti l’unico mezzo di cui dispongo per mettermi in contatto con voi.
Avevo apprezzato molto a suo tempo l’invito di papa Benedetto, che malgrado la mia posizione critica nei suoi riguardi mi accordò, poco dopo l’inizio del suo pontificato, un colloquio di quattro ore, che si svolse in modo amichevole. Ne avevo tratto la speranza che Joseph Ratzinger, già mio collega all’università di Tübingen, avrebbe trovato comunque la via verso un ulteriore rinnovamento della Chiesa e un’intesa ecumenica, nello spirito del Concilio Vaticano II. Purtroppo le mie speranze, così come quelle di tante e tanti credenti che vivono con impegno la fede cattolica, non si sono avverate; ho avuto modo di farlo sapere più di una volta a papa Benedetto nella corrispondenza che ho avuto con lui.
Indubbiamente egli non ha mai mancato di adempiere con scrupolo agli impegni quotidiani del papato, e inoltre ci ha fatto dono di tre giovevoli encicliche sulla fede, la speranza e l’amore. Ma a fronte della maggiore sfida del nostro tempo il suo pontificato si dimostra ogni giorno di più come un’ulteriore occasione perduta, per non aver saputo cogliere una serie di opportunità:
– È mancato il ravvicinamento alle Chiese evangeliche, non considerate neppure come Chiese nel senso proprio del termine: da qui l’impossiblità di un riconoscimento delle sue autorità e della celebrazione comune dell’Eucaristia.
– È mancata la continuità del dialogo con gli ebrei: il papa ha reintrodotto l’uso preconciliare della preghiera per l’illuminazione degli ebrei; ha accolto nella Chiesa alcuni vescovi notoriamente scismatici e antisemiti; sostiene la beatificazione di Pio XII; e prende in seria considerazione l’ebraismo solo in quanto radice storica del cristianesimo, e non già come comunità di fede che tuttora persegue il proprio cammino di salvezza. In tutto il mondo gli ebrei hanno espresso sdegno per le parole del Predicatore della Casa Pontificia, che in occasione della liturgia del venerdì santo ha paragonato le critiche rivolte al papa alle persecuzioni antisemite.
– Con i musulmani si è mancato di portare avanti un dialogo improntato alla fiducia. Sintomatico in questo senso è il discorso pronunciato dal papa a Ratisbona: mal consigliato, Benedetto XVI ha dato dell’islam un’immagine caricaturale, descrivendolo come una religione disumana e violenta e alimentando così la diffidenza tra i musulmani.
– È mancata la riconciliazione con i nativi dell’America Latina: in tutta serietà, il papa ha sostenuto che quei popoli colonizzati “anelassero” ad accogliere la religione dei conquistatori europei.
– Non si è colta l’opportunità di venire in aiuto alle popolazioni dell’Africa nella lotta contro la sovrappopolazione e l’AIDS, assecondando la contraccezione e l’uso del preservativo.
– Non si è colta l’opportunità di riconciliarsi con la scienza moderna, riconoscendo senza ambiguità la teoria dell’evoluzione e aderendo, seppure con le debite differenziazioni, alle nuove prospettive della ricerca, ad esempio sulle cellule staminali.
– Si è mancato di adottare infine, all’interno stesso del Vaticano, lo spirito del Concilio Vaticano II come bussola di orientamento della Chiesa cattolica, portando avanti le sue riforme.
Quest’ultimo punto, stimatissimi vescovi, riveste un’importanza cruciale. Questo papa non ha mai smesso di relativizzare i testi del Concilio, interpretandoli in senso regressivo e contrario allo spirito dei Padri conciliari, e giungendo addirittura a contrapporsi espressamente al Concilio ecumenico, il quale rappresenta, in base al diritto canonico, l’autorità suprema della Chiesa cattolica:
– ha accolto nella Chiesa cattolica, senza precondizione alcuna, i vescovi tradizionalisti della Fraternità di S. Pio X, ordinati illegalmente al di fuori della Chiesa cattolica, che hanno ricusato il Concilio su alcuni dei suoi punti essenziali;
– ha promosso con ogni mezzo la messa medievale tridentina, e occasionalmente celebra egli stesso l’Eucaristia in latino, volgendo le spalle ai fedeli;
– non realizza l’intesa con la Chiesa anglicana prevista nei documenti ecumenici ufficiali (ARCIC), ma cerca invece di attirare i preti anglicani sposati verso la Chiesa cattolica romana rinunciando all’obbligo del celibato.
– ha potenziato, a livello mondiale, le forze anticonciliari all’interno della Chiesa attraverso la nomina di alti responsabili anticonciliari (ad es.: Segreteria di Stato, Congregazione per la Liturgia) e di vescovi reazionari.
Papa Benedetto XVI sembra allontanarsi sempre più dalla grande maggioranza del popolo della Chiesa, il quale peraltro è già di per sé portato a disinteressarsi di quanto avviene a Roma, e nel migliore dei casi si identifica con la propria parrocchia o con il vescovo locale.
So bene che anche molti di voi soffrono di questa situazione: la politica anticonciliare del papa ha il pieno appoggio della Curia romana, che cerca di soffocare le critiche nell’episcopato e in seno alla Chiesa, e di screditare i dissenzienti con ogni mezzo. A Roma si cerca di accreditare, con rinnovate esibizioni di sfarzo barocco e manifestazioni di grande impatto mediatico, l’immagine di una Chiesa forte, con un “vicario di Cristo” assolutista, che riunisce nelle proprie mani i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Ma la politica di restaurazione di Benedetto XVI è fallita. Le sue pubbliche apparizioni, i suoi viaggi, i suoi documenti non sono serviti a influenzare nel senso della dottrina romana le idee della maggioranza dei cattolici su varie questioni controverse, e in particolare sulla morale sessuale. Neppure i suoi incontri con i giovani, in larga misura membri di gruppi carismatici di orientamento conservatore, hanno potuto frenare le defezioni dalla Chiesa, o incrementare le vocazioni al sacerdozio.
Nella vostra qualità di vescovi voi siete certo i primi a risentire dolorosamente dalla rinuncia di decine di migliaia di sacerdoti, che dall’epoca del Concilio ad oggi si sono dimessi dai loro incarichi soprattutto a causa della legge sul celibato. Il problema delle nuove leve non riguarda solo i preti ma anche gli ordini religiosi, le suore, i laici consacrati: il decremento è sia quantitativo che qualitativo. La rassegnazione e la frustrazione si diffondono tra il clero, e soprattutto tra i suoi esponenti più attivi; tanti si sentono abbandonati nel loro disagio, e soffrono a causa della Chiesa. In molte delle vostre diocesi è verosimilmente in aumento il numero delle chiese deserte, dei seminari e dei presbiteri vuoti. In molti Paesi, col preteso di una riforma ecclesiastica, si decide l’accorpamento di molte parrocchie, spesso contro la loro volontà, per costituire gigantesche “unità pastorali” affidate a un piccolo numero di preti oberati da un carico eccessivo di lavoro.
E da ultimo, ai tanti segnali della crisi in atto viene ad aggiungersi lo spaventoso scandalo degli abusi commessi da membri del clero su migliaia di bambini e adolescenti, negli Stati Uniti, in Irlanda, in Germania e altrove; e a tutto questo si accompagna una crisi di leadership, una crisi di fiducia senza precedenti. Non si può sottacere il fatto che il sistema mondiale di occultamento degli abusi sessuali del clero rispondesse alle disposizioni della Congregazione romana per la Dottrina della fede (guidata tra il 1981 e il 2005 dal cardinale Ratzinger), che fin dal pontificato di Giovanni Paolo II raccoglieva, nel più rigoroso segreto, la documentazione su questi casi. In data 18 maggio 2001 Joseph Ratzinger diramò a tutti i vescovi una lettera dai toni solenni sui delitti più gravi (”Epistula de delictis gravioribus”), imponendo nel caso di abusi il “secretum pontificium”, la cui violazione è punita dalla la Chiesa con severe sanzioni. E’ dunque a ragione che molti hanno chiesto un personale “mea culpa” al prefetto di allora, oggi papa Benedetto XVI. Il quale però non ha colto per farlo l’occasione della settimana santa, ma al contrario ha fatto attestare “urbi et orbi”, la domenica di Pasqua, la sua innocenza al cardinale decano.
Per la Chiesa cattolica le conseguenze di tutti gli scandali emersi sono devastanti, come hanno confermato alcuni dei suoi maggiori esponenti. Il sospetto generalizzato colpisce ormai indiscriminatamente innumerevoli educatori e pastori di grande impegno e di condotta ineccepibile. Sta a voi, stimatissimi vescovi, chiedervi quale sarà il futuro delle vostre diocesi e quello della nostra Chiesa. Non è mia intenzione proporvi qui un programma di riforme. L’ho già fatto più d’una volta, sia prima che dopo il Concilio.
Mi limiterò invece a sottoporvi qui sei proposte, condivise – ne sono convinto – da milioni di cattolici che non hanno voce.
1. Non tacete. Il silenzio a fronte di tanti gravissimi abusi vi rende corresponsabili. Al contrario, ogni qualvolta ritenete che determinate leggi, disposizioni o misure abbiano effetti controproducenti, dovreste dichiararlo pubblicamente. Non scrivete lettere a Roma per fare atto di sottomissione e devozione, ma per esigere riforme!
Perciò
6. si chieda la convocazione di un Concilio: se per arrivare alla riforma liturgica, alla libertà religiosa, all’ecumenismo e al dialogo interreligioso c’è stato bisogno di un Concilio, lo stesso vale oggi a fronte dei problemi che si pongono in termini tanto drammatici. Un secolo prima della Riforma, il Concilio di Costanza aveva deciso la convocazione di un concilio ogni cinque anni: decisione che fu però disattesa dalla Curia romana, la quale anche oggi farà indubbiamente di tutto per evitare un concilio dal quale non può che temere una limitazione dei propri poteri. È responsabilità di tutti voi riuscire a far passare la proposta di un concilio, o quanto meno di un’assemblea episcopale rappresentativa.
Questo, a fronte di una Chiesa in crisi, è l’appello che rivolgo a voi, stimatissimi vescovi: vi invito a gettare sulla bilancia il peso della vostra autorità episcopale, rivalutata dal Concilio. Nella difficile situazione che stiamo vivendo, gli occhi del mondo sono rivolti a voi. Innumerevoli sono i cattolici che hanno perso la fiducia nella loro Chiesa; e il solo modo per contribuire a ripristinarla è quello di affrontare onestamente e apertamente i problemi, per adottare le riforme che ne conseguono. Chiedo a voi, nel più totale rispetto, di fare la vostra parte, ove possibile in collaborazione con altri vescovi, ma se necessario anche soli, con apostolica “franchezza” (At 4,29.31). Date un segno di speranza ai vostri fedeli, date una prospettiva alla nostra Chiesa.
Vi saluto nella comunione della fede cristiana.
Lo vediamo questi giorni: c’è un’incredibile diversità tra noi. È come un’immagine di ciò che è la Chiesa: il Cristo ci riunisce in una sola comunione dalla Cina fino al Cile ».
Durante la veglia, un fratello originario della Bolivia ha fatto il suo impegno a vita nella comunità di Taizé.
In questa stessa sera, tutti hanno pregato per i popoli provati dai terremoti di Haiti e del Cile.
Tra i gruppi presenti, era possibile notare la presenza di giovani dell’Africa meridionale e della Norvegia, e molti altri.
E più di 4000 giovani hanno raggiunto la collina per passare la settimana che segue la Pasqua a Taizé, di cui un certo numero per vivere un tempo di ritiro in silenzio.
Preghiera di Fr. Alois la mattina di Pasqua
Cristo Gesù, tu non sei rimasto nella morte, ma sei risorto e vivi presso Dio. Aprii nostri occhi e il nostro cuore affinché possiamo riconoscere i segni della tua presenza: essi sono talmente umili che spesso non ce ne accorgiamo. Tu ci invii lo Spirito Santo, la forza dall’alto. Allora possiamo assumere il rischio di credere in te, nel tuo amore senza limiti per ogni essere umano. Qui troviamo la sorgente di una vita nuova per tutta la creazione.