Attualità
Adesso questo avvenimento e il nome che lo descrive sono diventati realtà: proprio a partire dagli ultimi giorni del dicembre scorso e proprio in Palestina, decine e decine di bambini vengono uccisi, non da sgherri assatanati, ma da un esercito fra i più potenti della Terra con generali, bandiere, ferrea disciplina, minuziosi piani di battaglia.
Perché Santi e Martiri quei bambini di Betlemme coetanei del Signore? La liturgia risponde con una formula che a me pare stupenda: martiri e dunque santi perché “non loquendo sed moriendo confessi sunt”, perché non con parole ma con la morte hanno testimoniato il Cristo. Così, una volta di più, la riflessione evangelica coglie il nesso intimo fra il Salvatore e i più poveri dei poveri: il loro destino, la loro storia ignorata dai libri, persino la storia effimera (di pochi giorni, mesi o anni) dei piccini uccisi dalla violenza degli adulti sono storia sacra, inscritta nel mistero della croce. Qualcuno mi ha detto tempo fa che nelle icone ortodosse dell’Epifania la culla di Gesù bambino ha la forma di una bara. (Ma le notizie che arrivano da Gaza mentre scrivo, il 6 gennaio, dicono che la popolazione non riesce più a seppellire i suoi morti).
Non con le parole ma con la morte testimoniano la realtà tutti i piccoli schiantati dalla nostra follìa o dalla nostra inerzia. Siano i bambini violati dai “turisti del sesso” o quelli schiacciati dalle fatiche di certi lavori “minorili”, le creaturine vietnamite che nascono deformi a causa dei defolianti disseminati dagli americani durante la guerra; o siano i ragazzini-soldati di certe aree africane o quelli uccisi, mutilati o psichicamente straziati dai conflitti, come i piccoli afghani e congolesi e sudanesi, quelli israeliani assassinati dai terroristi o, adesso, quelli massacrati dall’esercito israeliano, le vittime infantili del nostro tempo testimoniano che il male distende le sue ali di tenebra in tutte le epoche e i luoghi, e può insediarsi nel cuore di ogni uomo. I bambini violati e uccisi accompagnano con le loro ombre il nostro cammino e vanificano con i loro lamenti o i loro insanguinati silenzi la nostra pretesa di essere autori di una civiltà sempre più “umana”: giusta, cioè, libera, generosa. E tenera.
Credo fermamente che nessuno di noi possa “chiamarsi fuori” da queste realtà planetarie, che legami più o meno visibili ci saldino ai mali del nostro tempo e che non sia possibile uscire dalla nostra inevitabile condizione di carnefici (o, almeno, di favoreggiatori di carnefici) se non cercando di cogliere in tutta la sua valenza le nostre responsabilità. Credo, cioè, che innanzi tutto il nostro dovere non sia soltanto di piangere le piccole vittime ma di conoscere le condizioni storiche che le hanno crocifisse, per vedere se non sia possibile da parte nostra qualche intervento per un mutamento della realtà. Senza questa ricerca di informazioni è come se ci rifiutassimo di vedere il volto di quei bambini, di conoscerne il nome, di ascoltarne il lamento. Questa mancanza di informazioni emerge più che mai, oggi, davanti a Gaza. Mi sembra terribile: su un dramma planetario che da più di sessant’anni insanguina una Terra santa a tre religioni monoteiste, dunque a miliardi di persone, la gente ha idee confuse o addirittura non ne ha.
Gaza, la strage di tanti bambini (e dei loro genitori), la nostra pretesa di neutralità o addirittura la nostra compassione pesata al bilancino per l’una e l’altra parte in lotta, sono infatti una tragedia alimentata dalla disinformazione o dalla manipolazione dell’informazione. Se i palestinesi, i loro diritti violati, la libertà che gli viene negata sono così spesso ignorati da noi, cioè condannati, da mezzo secolo, all’insignificanza, è perché l’opinione pubblica internazionale è stata fortemente condizionata dalla propaganda israeliana. È ovviamente impossibile esaminare dettagliatamente come e perché, ma chi, come me, segue con attenzione, da cinquant’anni la vicenda medio-orientale sa bene che è un discorso necessario per uscire da una situazione di profonda ingiustizia: e che si possono porre, al riguardo, alcune considerazioni incontrovertibili. Bisogna cominciare da lontano: dopo la prima guerra mondiale, che aveva disgregato l’impero ottomano, le cosiddette Grandi Potenze ridisegnarono a loro piacimento, con sprezzante cinismo, la carta geopolitica dell’area. Con tutta la violenza dell’ideologia colonialista, considerarono primitivi e indegni di piena libertà i popoli arabi: imposero loro monarchi feudali o regimi corrotti, servili nei confronti di Londra e di Parigi. Fu in quel tempo che si cominciò a progettare, su pressione del movimento sionista, dei suoi amici altolocati e della vergogna dei pogrom europei, uno stato ebraico da erigere nelle antiche terre dei Patriarchi e dei Profeti. Subito dopo la seconda guerra mondiale, il progetto fu tradotto in realtà. Fu la realizzazione di un sogno per gli ebrei, ma una terribile sciagura per gli arabi che abitavano da secoli la Palestina. Su di loro si abbatté come un maglio la cattiva coscienza dell’Europa e degli Stati Uniti per non avere efficacemente impedito il genocidio ebraico: il nuovo stato fu insediato non già in una regione semi-deserta (“Una terra senza popolo per un popolo senza terra”) come sosteneva la propaganda sionista, ma in una zona popolosa, in cui esistevano condizioni di vita superiori a quelle di certi “cantoni neri” europei. Grandi masse di arabi furono costrette all’esodo dalle terre in cui erano nate, erano nati i loro padri e i padri dei padri dei padri. Per affrettare la fondazione del nuovo Israele, alla crescente opposizione palestinese si contrappose un feroce terrorismo sionista: la strage della popolazione del villaggio di Deir Yazzin (trucidati 250 uomini, donne, vecchi e bambini), la distruzione di un’ala dell’hotel King David, a Gerusalemme (91 morti), l’assassinio del mediatore delle Nazioni Unite, Folke Bernadotte… Non pochi degli autori di questi atti di terrorismo entrarono poi a far parte dei governi del nuovo Stato. Che io ricordi, non vi furono efficaci censure morali da parte dei politici o dei mass-media occidentali. Sembrò allora a molti (anche a me, debbo dire) che questi “partigiani” riscattassero con l’ardimento di molte loro imprese l’inerme rassegnazione con la quale milioni di ebrei europei erano andati al macello nei lager. E sembrò a moltissimi (e sembra ancora) che l’incomparabile gravità della Shoah concedesse ai superstiti una specie di salvacondotto che permettesse loro qualunque crudeltà. Questa legittimazione alla violenza venne sostenuta con enorme efficacia dai mass-media vicini alla (o posseduti dalla) ricca diaspora ebraica negli Stati Uniti: ricordo ancora con quanta emozione vidi film come “Exodus” di Preminger, lessi romanzi come “Ladri nella notte” di Koestler. Anche a me, come a moltissimi cittadini dell’Occidente, la fondazione dello stato di Israele, la guerra del 1948 apparvero l’ultima grande epopea del XX secolo.
A questa “copertura” mediatica non potevano certo rispondere i palestinesi: alcuni “contenuti” in stati non loro (come la Giordania), altri divenuti profughi di precaria sopravvivenza, altri ancora rimasti minoranza priva di qualunque potere politico nel nuovo stato ebraico. Così, quasi per una reazione spontanea, l’opinione pubblica occidentale introiettò la convinzione, tipicamente razzista, che il nuovo Stato ( non pochi cittadini del quale e molti sostenitori all’estero appartenevano – o erano collegati – all’intellighentzia occidentale), fosse un caposaldo della civiltà “bianca” nel Medio Oriente, di fronte a un nazionalismo arabo straccione e feudale.
Le guerre dei regimi arabi contro lo Stato ebraico rinforzarono questa supremazia mediatica: i farneticanti proclami del loro odio, la loro incapacità di promuovere l’idea di uno stato pluralista e laico anziché di due stati creati con drammatici spostamenti della popolazione locale, rinsaldarono nell’opinione pubblica internazionale l’immagine di un piccolo Israele permanentemente minacciato da una enorme valanga di nemici e dunque costretto a un duro esercizio della forza. Ben pochi si accorsero, nel passare degli anni, che questa immagine era sempre meno autentica perché non teneva conto dei crescenti aiuti e garanzie prestati dagli Stati Uniti allo stato ebraico, tali da creare ormai una realtà inattaccabile dai suoi vicini: uno stato che possiede il quinto esercito della Terra per potenza di fuoco e un rilevante armamento nucleare. Chi ha indicato questa evidente realtà, sostenendo che, ormai garantita la sicurezza di Israele, era giunto il momento di chiedergli un maggiore e sincero assenso a una pace che garantisse giustizia ai palestinesi, è stato sempre messo a tacere con l’accusa di antiebraismo: vorresti forse una nuova Shoah? Tre generazioni di israeliani si sono ormai succedute dalla fondazione del nuovo Stato, accade persino che i nonagenari scampati al genocidio lamentino che il “loro” governo lesini aiuti alla loro vecchiaia, la caratteristica di Israele come “stato-rifugio” per gli ebrei in diaspora è ormai una romantica illusione, ma l’accusa di antigiudaismo viene ancora rivolta a chi critica i governanti di Israele. Qualche volta l’accusa è di “antisemitismo”: i filo-israeliani meno colti non sanno neppure che anche i palestinesi sono semiti.
Le sconfitte arabe hanno consegnato a Israele, di fatto, l’intera area destinata, secondo gli illusori progetti dell’ONU, a uno stato palestinese. Questo avvenimento epocale ha stravolto gli stessi fondamenti ideali dello stato ebraico. Nella sua dichiarazione di Indipendenza stava scritto: “Lo Stato di Israele si dedicherà allo sviluppo di questo paese per il bene di tutti i suoi cittadini; sarà fondato sui principi di libertà, giustizia e pace, e sarà guidato dalla visione dei profeti di Israele; garantirà pieni e eguali diritti, sociali e politici, a tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalle differenze di religione, di razza o di sesso; tutelerà la libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura”. Di fatto, invece, Israele, quasi sospinta da un vento malvagio, si è trasformata in una potenza brutalmente coloniale che opprime con continue violazioni dei diritti umani un popolo in crescente disperazione. Centinaia di risoluzioni dell’ONU contro questi eccessi sono finiti nei cestini della carta straccia premurosamente forniti dagli Stati Uniti, grazie al loro potere di veto. Hanno vita durissima i pacifisti israeliani, coraggiosi, creativi, incessanti costruttori di ponti fra i due popoli che il cinismo dei governanti distrugge demolendo ogni speranza di pace. Nello stato ebraico sono presenti, distruttivamente, forze politiche che sognano di costringere gli arabi a un esodo definitivo dalla loro terra, altre, più numerose, che premono per la costruzione di un regime permanente di apartheid affidato all’esercito perché lo indurisca di quando in quando affinché i palestinesi “non creino problemi “, altre ancora disponibili alla creazione di uno stato arabo ma a pelle di leopardo: bantustan collegati fra loro da esili corridoi. Queste forze eversive si sono sempre schierate (esplicitamente o sotterraneamente) contro ogni piano di pace. Certamente, al riguardo, non mancano responsabilità palestinesi. Vergognosamente traditi dai paesi arabi, condizionati da una frammentazione della loro dirigenza politica, continuamente provocati dall’esercito israeliano, gli abitanti dei territori occupati hanno commesso anche loro profondi errori di valutazione e di azione.
Quarant’anni di dominio militare con l’uso di punizioni collettive (le case abbattute, i blocchi stradali che per giorni e giorni isolano villaggi e città, impedendo il transito persino alle autoambulanze), la diffusione dell’uso della tortura, l’imprigionamento di ragazzi, la chiusura delle scuole, la devastazione degli uliveti, l’erezione di un muro che taglia paesi e li separa dai campi, il sequestro di terre per i villaggi dei coloni armati, hanno avvelenato l’anima dei due popoli. Da un lato (quello palestinese) la ferocia di un terrorismo che per essere segno di disperazione non è meno criminale, oppure una rassegnazione che spinge all’inerzia, la corruzione di buona parte della dirigenza politica, un crescente fondamentalismo religioso. Dall’altro lato (quello israeliano) l’uso della paura e dei raid come strumento elettorale, una cultura violentemente razzista e nazionalista, la convinzione che gli arabi siano del tutto inaffidabili e persone senza dignità. I grandi scrittori di Israele (gli Yehoshua, i Grossman, gli Oz….) registrano con dolore questo scadimento etico, che si estende al trattamento dei cittadini arabo-israeliani. Spesso il comportamento delle truppe di occupazione è tanto crudele che quando, ai tempi della prima Intifada, Yitzchak Rabin suggerì ai soldati di non sparare contro i ragazzi palestinesi che lanciavano pietre ma di spaccare loro le braccia, egli fu considerato una “colomba”, un buono e persino un “molle”.
Gli psicologi israeliani denunziano l’insorgenza di nevrosi collettive. Vi sono segni di insensibilità crescente. Eccone uno, di oggi: “Piombo fuso” è un giocattolo donato ai bambini israeliani nella recente festa di Hanukkah. I generali hanno dato questo nome (Operazione Piombo fuso) ai piani dell’offensiva contro Gaza. I generali sanno bene che metà della popolazione di Gaza ha meno di 15 anni… E sanno che Gaza e la Striscia, con 2500 persone per chilometro quadrato, sono la più popolosa area della Terra. Bombardarla dal cielo e dal mare, come si sta facendo, o invaderla per combattere casa per casa significa mettere in atto un macello che ricorda certe imprese naziste.
Scrivo queste cose non per esecrare il popolo di Israele, al quale auguro invece di tutto cuore di diventare propulsore di pace e di benessere, ma perché sono convinto che molti non le sappiano, e che, invece, la diffusione della verità sia la strada necessaria alla giustizia. Ma interessa la verità ai mass-media italiani? Voglio raccontare un episodio al riguardo. Nel 1991 ero presidente del Comitato della Camera per i diritti umani. L’agenzia dell’ONU per i profughi mi invitò a portare una delegazione di parlamentari in visita ai campi in cui si accalcavano decine di migliaia di palestinesi. Fu un’esperienza drammatica: vedemmo un popolo che ci sembrò allo stremo, angariato da anni in mille modi, portato al furore da una congerie di leggi, decreti, bandi militari che ne impedivano ogni crescita e libertà. Ricordo come questa mancanza di diritto fosse evidente a Gaza, immensa metropoli di poverissima gente. Gli occupanti vi applicavano leggi israeliane, egiziane e persino del mandato britannico… Tornati a Roma presentammo la nostra relazione al presidente della Commissione Esteri, Flaminio Piccoli. Egli rilevò che nonostante la diversità politica (la delegazione “andava” da Democrazia Proletaria al MSI), il documento era unitario e la documentazione era importante. Decise di convocare una conferenza stampa. I giornalisti accreditati a Montecitorio sono più di 300. Non uno (non uno, avete capito bene) venne ad ascoltarci.
Milioni e milioni di italiani (la grande maggioranza) hanno come esclusiva fonte di informazione il TG1. Da anni questa testata affida il notiziario sull’area medio-orientale a un giornalista, Claudio Pagliara, che è certamente assai meno obiettivo dei giornalisti israeliani. Per esempio, continua a ripetere che l’offensiva israeliana è dovuta israeliana al fatto che Hamas aveva rotto la tregua stabilita con Israele. In realtà Hamas ha deciso di non rinnovare la tregua scaduta, motivando questa decisione con l’inasprimento del blocco alla Striscia e il bombardamento del 4 novembre, che ha causato la morte di 6 miliziani. In questo modo – ha scritto la stampa israeliana – si è “innescato un nuovo ciclo di pericolosa, anche se controllata, violenza, caratterizzata da occasionali colpi ed incursioni da parte di Israele e da corrispondenti lanci di razzi e spari da parte palestinese” (Daniel Levy, Haaretz, 19 dicembre”).
Tzahal, l’esercito israeliano, non consente ai giornalisti di entrare nella Striscia e dunque le notizie che ci arrivano dai luoghi della battaglia sono tutto fuorché obiettive; ad aumentare questo squilibrio, il giornalista del TG1 è prodigo di servizi sui danni che i razzi di Hamas procurano ad alcune città israeliane. Ora questi lanci sono un’iniziativa criminale ma non sono, purtroppo, una prerogativa di Hamas. Pagliara ha sempre taciuto che da anni – e anche durante i tentativi di trattative di pace – Tzahal lancia missili sui territori occupati, dichiarando che si tratta di “esecuzioni a distanza” di supposti criminali. Questi missili hanno provocato ormai centinaia e centinaia di “danni collaterali” palestinesi. I missili sono intrinsecamente diversi dai razzi?
Tanto meno il giornalista italiano ha espresso i dubbi dei suoi colleghi israeliani sulle reali ragioni dell’attacco a Gaza. Per esempio: “Fonti dell’establishment della Difesa hanno dichiarato che il ministro della difesa Ehud Barak ha ordinato alle Forze Aeree Israeliane di prepararsi per l’operazione più di sei mesi fa, anche mentre Israele iniziava a negoziare un accordo per il cessate il fuoco con Hamas”. (Barak Ravid, Operation “Cast Lead”: Israeli Air Force strike followed months of planning, Haaretz, 27 dicembre 2008).
Infine l’inviato del TG1 non si è mai dilungato sulle sofferenze inflitte alla popolazione di Gaza dall’assedio israeliano sottolineate da altri suoi colleghi: “L’assedio di Gaza ha distrutto per un’intera generazione la possibilità di vivere una vita degna di essere vissuta” (Tom Seghev, Haaretz 29 dicembre 2008); e anche “Mancano l’acqua, l’elettricità, i medicinali e il personale sanitario è spesso costretto alla drammatica scelta di quali feriti curare e quali abbandonare a se stessi, (New York Times, 1 gennaio 2009).
Concludo questo tragico cammino per le strade insanguinate della Palestina e di Israele facendo mie le parole con le quali Pietro Ingrao ha commentato la strage in atto a Gaza: “Sono convinto che non è con quella violenza iniqua che Israele può tutelare il suo domani. Anzi credo, temo che con questa aggressione infausta essa seminerà nuovo alimento per gli estremisti disperati di Hamas”. Nel 1991 io credetti di vedere nascere nei campi profughi una nuova leva di kamikaze. Ricordo gli occhi di un quindicenne a Deishah mentre mi raccontava del pianto disperato di una sua sorellina quando, a un chek-point un soldato le aveva sventrato una bambola, convinto che in essa si celasse dell’esplosivo. A Gaza ci sono più di 750 mila bambini. Ricordo con il cuore che piange gli aquiloni che essi levavano in mezzo al fango dell’inverno in cui li vidi e che mi sembrarono speranze levate verso il cielo. Quanto odio sta fermentando nel cuore di quei piccini, accanto alla paura? Non solo le lacrime degli orfani ma anche il rancore muto, e forse ancor più desolato, degli orfani “psicologici”: quelli che si sentono traditi da un padre che sembra non sapere, non volere difenderli, lui stesso terrorizzato, affamato. Che ricco raccolto per gli estremisti, per la violenza del loro odio che a un bambino può sembrare forza. I sedicenti amici di Israele non lo capiscono?
La pace è una bambina che corre verso un rifugio in cui sentirsi finalmente al sicuro. Palestinese o israeliana, che importa? Il suo grido dovrebbe strapparci alla nostra inerzia, che forse non è tale ma disperata sensazione di inutilità. Ma non dobbiamo cedere al pessimismo della ragione. Come cittadini, come cristiani (quelli di noi che osano dirsi tali) dobbiamo trovare modi per far sentire ai nostri governanti che la loro prudenza ci sembra viltà. Nella triste decadenza dei partiti la nostra solidarietà deve trovare nuove forme. Internet ne offre e non dobbiamo ritenerle troppo piccole, troppo deboli. Tra il poco e il nulla c’è un abisso.
Ai diplomatici Benedetto XVI ha detto che per vincere “l’inaudita violenza” dell’attacco a Gaza è forse necessario un ricambio generazionale dei governi, dunque un grande coraggio. Io ricordo quello di Paolo Vi che, per riportare lo sguardo della Chiesa sul mistero del Cristo, non si lasciò fermare dalla situazione militare della Terra Santa, ma sfidò la prudenza dei diplomatici annunziando con semplicità che lui sarebbe comunque partito. Davanti a lui, almeno per qualche ora, si aprì una meravigliosa strada che io ricordo di avere percorso con Eugenio Montale: era un viottolo che zigzagava fra crateri di bombe nella no men’s land, la terra di nessuno fra la Gerusalemme della Legione Araba e quella di Tzahal. Per qualche ora la Città Santa tornò una, la Bella dei Profeti, del Vangelo e del Corano.
E però noi non possiamo richiedere coraggio soltanto ai governanti. Decine di riservisti israeliani in questo momento si stanno trasformando in refuznik, obiettori di coscienza, che per questo saranno incarcerati. Non vogliamo assomigliargli almeno un poco? Davvero ci terrorizza la probabilità di essere definiti “amici di Hamas”?
Tratto dal ” Messagero” di Martedì 13 Gennaio
La crisi è evidente se si pensa che il trenta per cento dei fedeli non ritiene necessari i confessori e il dieci per cento li ritiene un impedimento al dialogo con il Signore, il 20 poi ha difficoltà a parlare di propri peccati a un’altra persona. Questi dati, gli ultimi disponibili, risalgono a una ricerca della università cattolica datata 1998 e in un decennio la situazione è peggiorata. «La crisi è preoccupante – spiega Girotti che pur essendo impegnato come reggente non rinuncia a servire in confessionale – la riforma del concilio Vaticano II ha riguardato il rito, ma sembra che non sia riuscita a ridare vitalità né alla comprensione teologica né alla fede di questo sacramento, anche se non sono mancati gli sforzi da parte di più conferenze episcopali».
La vera causa, sta nella «perdita del senso del peccato», e questo spinge la Penitenzieria a cercare rimedi pastorali. Innanzitutto la formazione dei confessori, che devono avere «prudenza, pazienza, saggezza e mitezza». Non c’è una regola che valga per tutte le situazione e il sacerdote deve partire dalla «libertà» del fedele.
«La confessione deve essere spontanea – raccomanda mons. Girotti -. Se si intravede che il penitente vorrebbe dire di più ma non riesce lo si può aiutare con domande, sempre con tatto e nel rispetto della privacy: bisogna accoglierlo, ridargli la pace e fargli riavere la gioia di vivere, nella consapevolezza della misericordia di Dio».
Le penitenze devono essere pertinenti al peccato e valutare la situazione del fedele: mai metterlo in difficoltà. Per esempio la penitenza per chi ruba o non paga le tasse deve bilanciare l’esigenza di restituire in qualche modo ai singoli o alla società ciò che si è sottratto, con quella di non mettere il penitente in condizione di essere individuato. Per chi ha commesso o praticato un aborto si tratta di individuare atti in favore della vita, come opere di beneficenza o aiuto a chi soffre.
La confessione collettiva invece, precisa il reggente, è ammessa solo in casi particolari, per esempio per l’afflusso di molti fedeli in caso di celebrazioni particolari. Ma il confessore è un po’ uno psicologo dell’anima? «No davvero – rimarca mons. Girotti – la psicologia è portata a giustificare e cercare attenuanti, mentre il senso di colpa resta». E per convincere i cattolici del valore di questo sacramento bisogna far leva sul «desiderio di comunione con Dio, che può avere solo chi ha la coscienza tranquilla».
Da Famiglia Cristiana n. 45/2008. ( articolo di Alberto Bobbio )
Riflessioni del Cardinale Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga, S.D.B., Arcivescovo di Tegucicalpa (Hondura
Il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga,presidente della Caritas internazionale e osservatore della Santa Sede alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale (Fmi), parla con la solita schiettezza, e aggiunge: «Chiedo che la comunità internazionale, come ha fatto per i crimini di guerra, costituisca un Tribunale internazionale per i crimini finanziari che, sicuramente, producono molti più morti delle guerre, per fame, sete e malattie».
Eminenza, di chi è la colpa?
«Degli uomini che hanno fatto del mercato un dio. Bush e l’intero sistema finanziario americano non possono assolversi dicendo che il capitalismo si è comportato male. Significa non riconoscere i propri errori. Tutto ha un limite, anche il consumo, anche il guadagno. Chi ha portato alla crisi deve fare un passo indietro, altrimenti provocherà altri danni in futuro».
Qualcuno dice che bisogna rifondare il capitalismo.
«Non basta. Bisogna inventare qualcosa di nuovo. È ora di finirla di procedere attraverso aggiustamenti strutturali dell’economia, che premiano soltanto i ricchi e allargano il solco con i poveri. Bisogna mettersi in testa che il capitalismo finanziario, dominatore dell’economia negli ultimi 30 anni, è fallito. Non va rifondato, va cambiato».
Quanto pagano sulla loro pelle i poveri questa crisi?
«Ancora non lo sappiamo, ma il costo sarà altissimo. La crisi del petrolio con i prezzi alle stelle ha prodotto prima dell’estate 100 milioni di poveri in più. Per sfamare un miliardo di persone denutrite nel mondo bastano 30 miliardi di dollari all’anno, cioè meno del 5 per cento del piano della Casa Bianca a favore delle banche. In primavera i leader riuniti a Roma hanno detto che per gli Obiettivi del millennio non c’erano soldi, ma nessuno ha avuto difficoltà a trovare miliardi di dollari per le banche».
Perché lei dice che siamo soltanto all’inizio degli effetti della crisi?
«La recessione porterà a un aumento della disoccupazione quasi ovunque. In America centrale e latina le rimesse di chi è emigrato negli Usa stanno già diminuendo. Vi sarà una contrazione delle importazioni americane e anche delle produzioni destinate al mercato estero. Così i prezzi aumenteranno e i ricchi faranno pagare la crisi ai poveri».
«Il Fondo monetario internazionale. Si è occupato solo del Terzo mondo, imponendo misure durissime ai Paesi poveri, e non ha sorvegliato le nazioni ricche. Non è vero che le regole non sono state rispettate. Le regole non c’erano per precisa volontà dei legislatori e della Casa Bianca. Ma il Fmi non ha mai avuto nulla da obiettare».
«Hanno continuato a contrarre prestiti colossali per sostenere i tagli alle tasse e finanziare gli impegni militari. I soldi per le armi si trovano sempre, soprattutto se le guerre sono inutili. Tuttavia, il rapporto tra guerra e indebitamento può essere fatale agli americani.
Se la Cina, che ha enormi investimenti nel sistema finanziario statunitense, decidesse di non comperare più buoni del Tesoro americano, gli Stati Uniti crollerebbero e gli impegni militari americani sarebbero completamente travolti».
È per scongiurare questa prospettiva che si sono avviate frenetiche manovre di salvataggio?
«Certo. Non si vuole scardinare il capitalismo finanziario e si giustifica perfino l’intervento massiccio dello Stato a favore delle banche, chiedendo più denaro in prestito».
Invece lo Stato cosa deve fare?
«Secondo la dottrina sociale della Chiesa, ha un ruolo chiave: stabilire regole, sorvegliare e garantire il bene di tutti.
Esattamente ciò che oggi manca. Quella di oggi è anzitutto una crisi etica, dove non c’è limite al desiderio. Vale per gli impegni militari e vale per la bolla immobiliare. Il mondo non gira solo attorno ai
soldi. Ci sono altri valori».
Perché siamo a questo punto?
«Nessuno si fida più degli altri. La paura ci domina: paura di perdere denaro, paura degli altri popoli, paura di non poter più consumare. Il terrorismo, dopo l’11 settembre, ha raggiunto il suo scopo: ha spalmato il mondo di paura e ha favorito lo sviluppo del razzismo, che produce più poveri e chiude le società. Le violente politiche antimmigrazione di molti Governi, compreso il vostro, lo dimostrano con chiarezza. E la recessione peggiorerà le cose».