Attualità
Nella storia della chiesa, questi i precedenti di rinuncia al ministero petrino.
Clemente I, santo ( 92-97) E’ Stato il quarto vescovo di Roma. È considerato il primo papa della storia a rinunziare al suo incarico perché arrestato ed esiliato per ordine dell’imperatore romano Nerva. L’ abdicazione per non lasciare la Chiesa di Roma senza pastore. Morì martire, gettato in mare con un’ancora al collo nel 99 o 100.
Ponziano, santo (230 – 235) – Il vescovo Ponziano fu comandato “ad metalla” cioè al lavoro forzato nelle miniere in Sardegna ove poi morì per gli stenti della prigionia. Già al momento del suo forzato allontanamento da Roma, aveva rinunciato formalmente al proprio incarico, invitando la comunità ad eleggergli un successore.
Silverio (1 giugno 536 -11 novembre 537).
Fu costretto ad abdicare dall’imperatrice Teodora che costruì contro di lui false accuse a proposito di un accordo segreto con gli invasori Goti. Venne arrestato e portato in esilio a Licia. Anni dopo venne riconosciuto innocente.
Giovanni XVIII, Giovanni Fasano (1009 circa) – Era diventato papa per volontà di Giovanni Crescenzio III (uno dei capi delle fazioni nobiliari romane che da anni si arrogavano il diritto di imporre ai romani ed al clero il nominativo del papa da eleggere).
Non è però proprio certo che sia stato dimissionario.
Benedetto IX, Teofilatto dei conti di Tuscolo (1032 – 1045) – Gli fu affidato il papato dal padre Alberico, capo della fazione dei Tuscolo, che consideravano il papato come una eredità
familiare. Nel 1044 a Roma scoppiò una sommossa contro lo strapotere dei Tuscolo.
Benedetto IX venne detronizzato e gli si contrappose Silvestro III, che però venne a sua volta cacciato via; Benedetto IX venne reintegrato, ma cedette la tiara per denaro al suo padrino di battesimo, l’arciprete Giovanni
Graziano. Inoltre lo stesso Enrico III fece dichiarare deposti in contemporanea tre papi: Benedetto IX, Silvestro III e Gregorio VI.
Celestino V Santo, Pietro da Morrone (1294) –
Fu un uomo di grande santità, eremita per molti anni, ma che non aveva esperienza di
governo. Fu succube di Carlo II d’Angiò (detto lo Zoppo) e trasferì la sede apostolica a Napoli. Abdicò dopo cinque mesi di pontificato e chiese di poter tornare nel suo eremo. Ma il suo successore Bonifacio VIII lo tenne rinchiuso nella rocca di Fumone in provincia di Frosinone fino alla morte (1296).
Secondo una voce popolare assai diffusa, Bonifacio VIII – temendo uno scisma che i suoi
oppositori avrebbero potuto provocare – lo avrebbe fatto strangolare.
Ecco il testo della rinuncia.
«Ego Caelestinus Papa Quintus motus ex legittimis causis, idest causa humilitatis, et melioris vitae, et coscientiae illesae, debilitate corporis, defectu scientiae, et malignitate Plebis, infirmitate personae, et ut praeteritae consolationis possim reparare quietem; sponte, ac libere cedo Papatui, et expresse renuncio loco, et dignitati, oneri, et honori, et do plenam, et liberam ex nunc sacro caetui Cardinalium facultatem eligendi, et providendi duntaxat Canonice universali Ecclesiae de Pastore.»
«Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, ossia: per umiltà; per desiderio di una vita migliore e di una coscienza pura; per la debolezza del mio corpo; per aver io poca scienza [delle cose del mondo]; per la malignità della plebe; per l’infermità della mia persona; e affinché io possa recuperare la tranquillità: abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al seggio, alla dignità, all’onere e all’onore che esso comporta. Do sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, a un pastore per la Chiesa Universale.»
Gregorio XII, Angelo Correr (1406 – 1415)
Eletto nel 1406 nel pieno della vicenda degli antipapi avignonesi. Ad Avignone, infatti, nello stesso tempo, era stato eletto Benedetto XIII. I due papi si erano accordati perché alla rinuncia dell’uno corrispondesse anche quella dell’altro con l’obiettivo di ridare unità alla Chiesa. Lo scontro, invece, andò avanti per anni con Concili convocati dall’uno e dall’altro che dichiaravano il rivale “spergiuro, scismatico e devastatore della Chiesa”. La questione si chiuse quando, con accordi faticosissimi, entrambi arrivarono effettivamente alle dimissioni ottenendo in cambio (il mondo è sempre lo stesso) il mantenimento dei cardinali da ciascuno nominati.
Tanti i commenti tutti ispirati a proclamare il coraggio, l’umiltà, la forza di aprire la Chiesa al nuovo nella debolezza.
Riportiamo quello di Enzo Bianchi, priore di Bose apparso sulla ” Stampa” di stamani 12 Febbraio.
Per quasi tutti è stata una sorpresa, per chi lo conosceva anche solo un poco, come me, no. Perché Benedetto XVI è innanzitutto un uomo coerente tra il suo dire e l’operare.
Aveva detto più volte, e lasciato pubblicare nella sua intervista con Peter Seewald, che il papa avrebbe potuto dimettersi qualora giungesse “alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico” di successore di Pietro.
E così ha fatto, quando davanti a Dio ha esaminato la propria coscienza. Un gesto compiuto anche nella consapevolezza che nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti, occorre il vigore di chi è più giovane, “sia nel corpo sia nell’animo”. Così si è dimesso, ma preparando con cura questo giorno. Aveva celebrato un concistoro in novembre, per dare un volto maggiormente universale al collegio cardinalizio, aveva terminato la sua fatica di fede e di testimonianza nello stendere una lettura di Gesù morto e risorto, vissuto realmente negli anni della nostra storia, approfondendone i vangeli dell’infanzia. E speriamo che prima del 28 febbraio consegni – quasi come suo testamento – l’enciclica sulla fede, dopo le due luminose sull’amore e sulla speranza. Noi attendiamo ancora questo dono da lui.
Non è questo il momento di tracciare un bilancio, ammesso che si possa fare, sui quasi otto anni del suo ministero petrino: un pontificato che ha attraversato la nostra storia non facile, non semplice e a volte anche enigmatica, una storia piena di mutamenti globali nel mondo occidentale (l’aggravarsi di una crisi culturale e una crisi economica mai conosciuta nei tempi recenti) e di rivoluzioni nel mondo arabo che giudichiamo “primavere” ma che vediamo attraversate da gelate repentine; un tempo di incertezze e di mutamenti nell’etica, soprattutto nelle culture un tempo cristiane. Sono stati anni in cui Benedetto XVI ha continuato ad ammonire la chiesa, accettandone la condizione minoritaria, chiedendole di essere minoranza significativa, capace di esprimere la differenza cristiana in un mondo indifferente e nel contempo segnato dalla presenza simultanea di molte religioni nello stesso luogo.
Lo si è definito più volte un papa conservatore, ma questo gesto lo mostra come innovatore: rompe, infatti, una tradizione di duemila anni in cui tutti i vescovi di Roma sono morti di morte violenta o di malattia o di vecchiaia (papa Celestino V dimissionò, ma costretto da chi sarebbe diventato il suo successore). Così il cattolico è invitato a guardare più al ministero petrino che non alla persona del papa: questo è certamente un fatto rivoluzionario e, ritengo, anche più evangelico. Chi esercita l’episcopato o un servizio di presidenza nella chiesa, lo fa in comunione con Cristo Signore in misura del grado in cui è stato posto, ma una volta cessato l’esercizio del ministero, un altro può continuarlo e la persona che lo ha esercitato in precedenza scompare, diminuisce, si ritira.
La domanda che già sentiamo risuonare – come sarà con due papi viventi? – in realtà non sussiste, perché uno solo sarà il papa. Benedetto XVI tornerà a essere il cardinal Ratzinger e non possederà più quella grazia e quell’autorevolezza dello Spirito santo che saranno possedute da chi sarà eletto nuovo papa dal legittimo collegio cardinalizio. Su questo la dottrina cattolica è chiara e non permette che una persona sia più determinante del ministero che gli è stato affidato. In ogni caso, conoscendo l’umiltà di Benedetto XVI, siamo certi che egli – come promette nel messaggio rivolto ieri ai cardinali – si dedicherà alla preghiera e anche lui pregherà con la chiesa intera per Pietro, per il nuovo papa, ben sapendo di non esserlo più: avverrà per il vescovo di Roma, come per i vescovi emeriti delle altre diocesi.
Papa Benedetto ha compiuto un grande gesto, evangelico innanzitutto, e poi umano. In uno stupendo commento ai salmi, sant’Agostino – un padre della chiesa tra i più amati da Benedetto XVI – leggiamo: “Si dice che quando i cervi migrano in gruppo o si dirigono verso nuove terre, appoggiano il peso delle loro teste scambievolmente gli uni sugli altri, in modo che uno va avanti e quello che segue appoggia su di esso la sua testa… quello che sta in testa sopporta da solo il peso di un altro, quando poi è stanco passa in coda, giacché al suo posto va un altro a portare il peso che prima portava lui e così si riposa dalla sua stanchezza, poggiando la sua testa come la poggiano gli altri” (Commento al Salmo 41).
Così la presenza di Ratzinger nella chiesa non si conclude. Sarà un presenza altra e non meno significativa: una presenza di intercessione. Si metterà cioè tra Dio e gli uomini, non per compaginarli nella comunione cattolica – questo non sarà più il suo compito – ma per chiedere che Dio continui a inviare le energie dello Spirito santo sulla chiesa e i suoi doni sull’umanità. Molti oggi vorrebbero dire a papa Benedetto XVI: “Grazie, santo Padre!” per il suo disinteresse, per la sua sollecitudine affinché anche il papa sia decentrato rispetto a colui che dà il nome di cristiani a molti uomini e donne che hanno fede solo in lui: Gesù Cristo! Si diceva che questo papa ha grandi parole ed è incapace di gesti: il più bel gesto ce lo lascia ora, come Pietro che ormai anziano – dice il Nuovo Testamento – “se ne andò verso un altro luogo” continuando però a seguire il Signore. Benedetto XVI appare successore di Pietro più che mai, anche nel suo esodo.
Il Papa ha annunciato oggi la sua rinuncia al ministero petrino. Questa la sua dichiarazione stamani durante il Concistoro per tre canonizzazioni.
( Cliccando sull’immagine accannto si potrà aprire il video. Di seguito il testo della dichiarazione )
Carissimi Fratelli,
vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando.
Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato.
Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti.
Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice.
Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.
Per rievocare Don Giuseppe un ricordo di Enzo Bianchi apparso sulla “Stampa” del 10 Febbraio
Nel centenario della nascita di Giuseppe Dossetti (13 febbraio 1913), alle molte iniziative per ricordare quella straordinaria figura di uomo politico e di cristiano del secolo scorso si sono anche contrapposte – e c’era da aspettarselo – voci critiche su di lui e la sua opera. Questo perché Dossetti è tuttora una presenza ispirante in Italia, un personaggio capace di fornire argomenti per i confronti ancora in corso. Purtroppo in questo dibattito, cosa inconsueta, proprio nell’ambito ecclesiale si registra un pesante silenzio nel quale si levano alcuni interventi accaniti, tesi a delegittimare la sua figura. Questo provoca in molti cristiani una grande sofferenza, fa emergere quanta ingratitudine possa annidarsi in spazi ecclesiali e quanta insensatezza possa ispirare alcuni ecclesiastici.
Si dice che Dossetti non era un teologo, che nel suo pensiero c’erano lacune perché la sua formazione era quella di un giurista e il suo curriculum era privo di studi di teologia in una facoltà cattolica, senza ricordare che tratti analoghi sono riscontrabili anche in grandi Padri della Chiesa, a cominciare da sant’Ambrogio… Si dice che avesse di Israele quale popolo di Dio e della sua salvezza una lettura non conforme alla dottrina cattolica, quando in realtà egli si interrogava su posizioni teologiche emerse nella Chiesa cattolica all’inizio degli Anni Ottanta, senza mai giungere a sostenere che per gli ebrei fosse possibile una salvezza senza Cristo. Se Giovanni Paolo II con audacia – che non mancò di sorprendere persino molti tra quanti erano impegnati nel dialogo ebraico-cristiano – era giunto ad affermare nella sinagoga di Magonza che Israele è «il popolo di Dio dell’antica alleanza mai revocata», significa che essa è tuttora in vigore e, come ci insegna la Scrittura, è un’alleanza di salvezza. Ma questo non equivale certo a una salvezza senza Cristo, senza il Messia promesso e atteso dal popolo della prima alleanza. Solo Gesù Cristo è il salvatore di tutti, e questa verità di fede era in don Giuseppe Dossetti una confessione salda e incrollabile come roccia.
Vi è anche chi critica il dossettismo come via politica, e su questo è più che giusto lasciare che le interpretazioni restino diverse come sempre sono state, purché non si finisca col mettere in contraddizione tra loro la fede cattolica di Dossetti e il suo impegno politico precedente la scelta presbiterale e monastica. Ma è sull’aspetto cristiano ed ecclesiale che ritengo di poter dire alcune parole più personali.
Ho incontrato per la prima volta don Giuseppe a Monteveglio nel novembre 1966: dopo aver ascoltato la sua omelia, ebbi la possibilità di un dialogo personale con lui su temi ecumenici e monastici. Io ero giovanissimo, mentre lui aveva da poco terminato la sua preziosissima opera al Concilio, dove aveva fornito un apporto decisivo di studio, di consigli e di elaborazione di proposte,
coadiuvando in particolare il suo vescovo, il cardinal Lercaro di Bologna. Quell’uomo mi diede subito l’impressione di essere un cristiano «morsicato» dal radicalismo evangelico, un monaco rigoroso, consapevole di essere stato posto come sentinella sulle mura della Chiesa per gridare, a tempo e fuori tempo, di notte e di giorno, le esigenze del Vangelo.
Quando nelle lunghe veglie a Monteveglio, in Terrasanta, a Montesole commentava la parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, sembrava di ascoltare un Padre della Chiesa: si sentiva la sua competenza linguistica per la lettura dei testi nella lingua originale, la sua conoscenza dei Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, la frequentazione dell’esegesi storico-critica della seconda metà del secolo scorso. Verso quest’ultima nutriva a volte dei timori e per questo preferiva la lettura «in ecclesia», nel solco della grande tradizione, una lettura pregata. Leggendo i volumi finora editi delle sue omelie, non si finisce mai di imparare, di conoscere in profondità il messaggio delle Scritture di Israele e della Chiesa.
Dossetti era un cristiano «obbedientissimo», che si imponeva di non criticare l’autorità della Chiesa,soprattutto i suoi vescovi, anche quando non era d’accordo e il suo giudizio sarebbe potuto sembrare contestazione. Allora preferiva tacere. Anche per questo lasciò l’Italia e con alcuni fratelli e sorelle andò in terra d’Israele. Mentre don Giuseppe risiedeva a Gerico, sostai cento giorni a Gerusalemme e potei incontrarlo più volte, e anche p. Carlo Maria Martini, allora all’Istituto biblico di Gerusalemme, veniva ad ascoltare le sue omelie. Ricordo che Dossetti passava ore in preghiera al santo Sepolcro. A Gerico viveva in baracche precarie, in un clima a volte torrido, e per le sue salite a Gerusalemme viaggiava su autobus stracolmi di arabi poveri. Un uomo di famiglia agiata, che era stato deputato della Repubblica e un’autorità morale nella Chiesa, avviandosi verso l’anzianità aveva intensificato la sua sobrietà conducendo una vita da povero, segnata dall’ascesi, da pesanti disagi e da un anonimato quotidiano nei territori palestinesi occupati da Israele. Vescovi e cardinali, semplici e poveri cristiani, personaggi importanti della vita sociale, giovani, non credenti, andavano a cercare una sua parola e lui sovente si sottraeva, quasi nascondendosi. Si diceva frequentemente: «Com’è difficile incontrare don Giuseppe!». Ma negli incontri i suoi occhi lampeggiavano, quando faceva discernimento alla luce della parola di Dio, quando cercava di leggere i «segni dei tempi» ascoltando anche l’umanità: la sua parola era tagliente come spada e possedeva un’autorevolezza rara. Come per Antonio, il grande Padre del deserto, di lui si potrebbe dire: «Bastava vederlo».
Quante volte, anche dopo il suo rientro in Italia, sono andato da Dossetti per confrontare le nostre sollecitudini e le nostre ansie, per comprendere maggiormente dove stavamo andando come cristiani: le sue parole erano frutto di preghiera, di assiduità con la Bibbia, di liturgia eucaristica e di letture diversissime. Davvero una vita segnata da una coerenza che altri non riuscirebbero nemmeno a pensare. È veramente triste che oggi la sua Chiesa non lo riconosca. Ma in questo tempo il vento soffia in direzione contraria, e don Giuseppe l’aveva umilmente previsto e denunciato. Da parte mia, nei suoi confronti mi sento di osare una parola forte, con la libertà di chi non è stato suo discepolo ma, anzi, ha avuto sguardi diversi sul monachesimo nel mondo di oggi e sulle altre Chiese cristiane: era veramente un santo, un uomo di Dio e di nessun altro!