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Vangelo del giorno
Sabato 23 Novembre 2024

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
Dissero allora alcuni scribi: «Maestro, hai parlato bene». E non osavano più rivolgergli alcuna domanda.

(Lc. 20,27-40) 

Bibbia – CEI 2008
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Per citazione
(es. Mt 28,1-20):
Per parola:

Tirisan

Miei cari fratelli, è proprio una scena d’agonia e di cenacolo. Fuori c’è tanto buio e piove. Nella nostra Chiesa, che è diventata il Cenacolo, non piove, non c’è buio, ma c’è una solitudine di cuori di cui forse il Signore porta il peso. mazzolari

C’è un nome, che torna tanto nella preghiera della Messa che sto celebrando in commemorazione del Cenacolo del Signore, un nome che fa’ spavento, il nome di Giuda, il Traditore.

Un gruppo di vostri bambini rappresenta gli Apostoli; sono dodici. Quelli sono tutti innocenti, tutti buoni, non hanno ancora imparato a tradire e Dio voglia che non soltanto loro, ma che tutti i nostri figlioli non imparino a tradire il Signore. Chi tradisce il Signore, tradisce la propria anima, tradisce i fratelli, la propria coscienza, il proprio dovere e diventa un infelice. Io mi dimentico per un momento del Signore o meglio il Signore è presente nel riflesso del dolore di questo tradimento, che deve aver dato al cuore del Signore una sofferenza sconfinata. Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so. E’ uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: “Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!” Amico! Questa parola che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli son diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore. Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consumava il tradimento del Maestro. Vi ho domandato: come mai un apostolo del Signore è finito come traditore? Conoscete voi, o miei cari fratelli, il mistero del male? Sapete dirmi come noi siamo diventati cattivi? Ricordatevi che nessuno di noi in un certo momento non ha scoperto dentro di sé il male. L’abbiamo visto crescere il male, non sappiamo neanche perché ci siamo abbandonati al male, perché siamo diventati dei bestemmiatori, dei negatori. Non sappiamo neanche perché abbiamo voltato le spalle a Cristo e alla Chiesa. Ad un certo momento ecco, è venuto fuori il male, di dove è venuto fuori? Chi ce l’ha insegnato? Chi ci ha corrotto? Chi ci ha tolto l’innocenza? Chi ci ha tolto la fede? Chi ci ha tolto la capacità di credere nel bene, di amare il bene, di accettare il dovere, di affrontare la vita come una missione. Vedete, Giuda, fratello nostro! Fratello in questa comune miseria e in questa sorpresa! Qualcheduno però, deve avere aiutato Giuda a diventare il Traditore. C’è una parola nel Vangelo, che non spiega il mistero del male di Giuda, ma che ce lo mette davanti in un modo impressionante: “Satana lo ha occupato”. Ha preso possesso di lui, qualcheduno deve avervelo introdotto. Quanta gente ha il mestiere di Satana: distruggere l’opera di Dio, desolare le coscienze, spargere il dubbio, insinuare l’incredulità, togliere la fiducia in Dio, cancellare il Dio dai cuori di tante creature. Questa è l’opera del male, è l’opera di Satana. Ha agito in Giuda e può agire anche dentro di noi se non stiamo attenti. Per questo il Signore aveva detto ai suoi Apostoli là nell’orto degli ulivi, quando se li era chiamati vicini: “State svegli e pregate per non entrare in tentazione”. E la tentazione è incominciata col denaro. Le mani che contano il denaro. Che cosa mi date? Che io ve lo metto nelle mani? E gli contarono trenta denari. Ma glieli hanno contati dopo che il Cristo era già stato arrestato e portato davanti al tribunale. Vedete il baratto! L’amico, il maestro, colui che l’aveva scelto, che ne aveva fatto un Apostolo, colui che ci ha fatto un figliolo di Dio; che ci ha dato la dignità, la libertà, la grandezza dei figli di Dio. Ecco! Baratto! Trenta denari! Il piccolo guadagno. Vale poco una coscienza, o miei cari fratelli, trenta denari. E qualche volta anche ci vendiamo per meno di trenta denari. Ecco i nostri guadagni, per cui voi sentite catalogare Giuda come un pessimo affarista. C’è qualcheduno che crede di aver fatto un affare vendendo Cristo, rinnegando Cristo, mettendosi dalla parte dei nemici. Crede di aver guadagnato il posto, un po’ di lavoro, una certa stima, una certa considerazione, tra certi amici i quali godono di poter portare via il meglio che c’è nell’anima e nella coscienza di qualche loro compagno. Ecco vedete il guadagno? Trenta denari! Che cosa diventano questi trenta denari? Ad un certo momento voi vedete un uomo, Giuda, siamo nella giornata di domani, quando il Cristo sta per essere condannato a morte. Forse Lui non aveva immaginato che il suo tradimento arrivasse tanto lontano. Quando ha sentito il crucifigge, quando l’ha visto percosso a morte nell’atrio di Pilato, il traditore trova un gesto, un grande gesto. Va’ dov’erano ancora radunati i capi del popolo, quelli che l’avevano comperato, quella da cui si era lasciato comperare. Ha in mano la borsa, prende i trenta denari, glieli butta, prendete, è il prezzo del sangue del Giusto. Una rivelazione di fede, aveva misurato la gravità del suo misfatto. Non contavano più questi denari. Aveva fatto tanti calcoli, su questi denari. Il denaro. Trenta denari. Che cosa importa della coscienza, che cosa importa essere cristiani? Che cosa ci importa di Dio? Dio non lo si vede, Dio non ci da’ da mangiare, Dio non ci fa’ divertire, Dio non da’ la ragione della nostra vita. I trenta denari. E non abbiamo la forza di tenerli nelle mani. E se ne vanno. Perché dove la coscienza non è tranquilla anche il denaro diventa un tormento. C’è un gesto, un gesto che denota una grandezza umana. Glieli butta là. Credete voi che quella gente capisca qualche cosa? Li raccoglie e dice: “Poiché hanno del sangue, li mettiamo in disparte. Compereremo un po’ di terra e ne faremo un cimitero per i forestieri che muoiono durante la Pasqua e le altre feste grandi del nostro popolo”. Così la scena si cambia, domani sera qui, quando si scoprirà la croce, voi vedrete che ci sono due patiboli, c’è la croce di cristo; c’è un albero, dove il traditore si è impiccato. Povero Giuda. Povero fratello nostro. Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo; è quello di disperare. Anche Pietro aveva negato il Maestro; e poi lo ha guardato e si è messo a piangere e il Signore lo ha ricollocato al suo posto: il suo vicario. Tutti gli Apostoli hanno abbandonato il Signore e son tornati, e il Cristo ha perdonato loro e li ha ripresi con la stessa fiducia. Credete voi che non ci sarebbe stato posto anche per Giuda se avesse voluto, se si fosse portato ai piedi del calvario, se lo avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della Via Crucis: la salvezza sarebbe arrivata anche per lui. Povero Giuda. Una croce e un albero di un impiccato. Dei chiodi e una corda. Provate a confrontare queste due fini. Voi mi direte: “Muore l’uno e muore l’altro”. Io però vorrei domandarvi qual è la morte che voi eleggete, sulla croce come il Cristo, nella speranza del Cristo, o impiccati, disperati, senza niente davanti. Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni. Un corteo che certamente pare che non faccia onore al figliolo di Dio, come qualcheduno lo concepisce, ma che è una grandezza della sua misericordia. E adesso, che prima di riprendere la Messa, ripeterò il gesto di Cristo nell’ultima cena, lavando i nostri bambini che rappresentano gli Apostoli del Signore in mezzo a noi, baciando quei piedini innocenti, lasciate che io pensi per un momento al Giuda che ho dentro di me, al Giuda che forse anche voi avete dentro. E lasciate che io domandi a Gesù, a Gesù che è in agonia, a Gesù che ci accetta come siamo, lasciate che io gli domandi, come grazia pasquale, di chiamarmi amico. La Pasqua è questa parola detta ad un povero Giuda come me, detta a dei poveri Giuda come voi. Questa è la gioia: che Cristo ci ama, che Cristo ci perdona, che Cristo non vuole che noi ci disperiamo. Anche quando noi ci rivolteremo tutti i momenti contro di Lui, anche quando lo bestemmieremo, anche quando rifiuteremo il Sacerdote all’ultimo momento della nostra vita, ricordatevi che per Lui noi saremo sempre gli amici.

appello-miny Molti fatti con i quali veniamo a contatto ci dicono che oggi la Chiesa tende progressivamente a isolarsi dal mondo contemporaneo. Molti uomini e donne, specie giovani, avvertono, da parte loro, una radicale estraneità dalla Chiesa. Tra Chiesa e società si è determinata una drammatica frattura su questioni importanti come la libertà di coscienza, i diritti umani (fuori e dentro la Chiesa), il pluralismo religioso, la laicità della politica e dello Stato. La Chiesa appare ripiegata su se stessa, chiusa e incapace di dialogare con gli uomini e le donne del nostro tempo.
Siamo molto preoccupati per le conseguenze negative che tale perdurante situazione produce per l’annuncio del Vangelo. Per questo, ci sembra saggio riprendere e rilanciare la feconda intuizione di Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Concilio Vaticano II: quella di «un balzo in avanti» della Chiesa per una testimonianza in grado di rispondere «alle esigenze del nostro tempo».

 Il tentativo in atto di contenere lo Spirito del Concilio è, a nostro avviso, un grave errore che, se perseguito fino in fondo, non può che aumentare in modo irreparabile lo steccato tra Chiesa e società, Vangelo e vita, annuncio e testimonianza. A noi sembra che l’insistere su visioni e norme anti-storiche o non biblicamente fondate o, talvolta, anti-cristiane, non aiuti la credibilità ecclesiale nell’annuncio del regno di Dio.
Vanno ripensati, ad esempio, le questioni riguardanti l’esercizio della collegialità episcopale e del primato papale, i criteri nella nomina dei vescovi che salvaguardino il pluralismo, la condizione dei divorziati, dei separati e delle persone omosessuali, l’accesso delle donne ai ministeri ecclesiali, la dignità del morire.
Vogliamo una Chiesa che non imponga mai a nessuno le proprie convinzioni sui problemi dell’etica e della politica e si fidi solo della forza libera e mite della fede e della grazia di Dio.
Vogliamo una Chiesa che pratichi la compassione e trovi nella pietà la sua gloria. E faccia sue le parole che il santo padre Giovanni XXIII incise sul frontone del Concilio: «Oggi la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi non rinnovando condanne ma mostrando la validità della sua dottrina… La Chiesa vuol mostrarsi madre amorevole di tutti, benigna, paziente, piena di misericordia e di bontà, anche verso i figli da lei separati».
Vogliamo una Chiesa che sappia dialogare con gli uomini e le donne e le loro culture, senza chiusure e condizionamenti ideologici, e impari ad ascoltare e a ricevere con gioia le cose vere e buone di cui gli interlocutori sono portatori. La verità e la bontà sono di Dio, il quale le dà a tutti gli uomini e non solo ai cristiani.
Vogliamo che al centro della Chiesa venga messo il Vangelo e la sua radicalità. Solo così la Chiesa potrà essere vista e sperimentata come “esperta in umanità”. È tempo che, senza paura, nella Chiesa e nella città prendiamo la parola da cristiani adulti e responsabili, pronti a rendere conto della speranza cristiana.

Palermo 25 febbraio 2009

Promotori dell’appello sono alcuni sacerdoti e laici, non solo palermitani. In ordine alfabetico: Giuseppe Barbera (laico), Nino Fasullo (prete), Rosellina Garbo (laica), Rosario Giuè (prete), Tommaso Impellitteri (laico), Teresa Passatello (laica), Teresa Restivo (laica), Franco Romano (parroco), Zina Romeo (laica), Rosanna Rumore (laica), Cosimo Scordato (prete), Francesco Michele Stabile (parroco). All’appello, che finora ha raccolto più di 300 adesioni, hanno aderito i seguenti preti: Aurelio Antista, Liborio Asciutto, Gregorio Battaglia, Alberto Neglia, Giovanni Calcara, Gianni Novelli, Egidio Palombo.

Si può inviare la propria adesione a queste e-mail: chiesacitta@libero.it oppure: rivistasegno@libero.it

Da “IL DESERTO NELLA CITTÀ Domenica – Resurrezione: la profezia di Gesù ( di fr. Carlo Carretto )
carlocarretto ….Non è difficile convincersi che la vera profezia del Cristo è la Resurrezione dai morti.
Penso sia davvero il sunto del suo insegnamento, del suo annuncio reso autentico e terribilmente vero del fatto che fu Lui a risorgere per primo, aprendo una via definitiva attesa da secoli con lo spasimo di tutte le morti.
Basta vedere un animale morire dilaniato nelle sue carni, basta vedere un uomo agonizzare per capire che sulla natura tutta quanta pesa un interrogativo insopportabile, una tragedia senza limiti, una oscurità totale.
Nessuno ha saputo dare una risposta. Le parole sono fuori posto quando da un corpo vivo esce un lamento doloroso.
Tutt’al più si può dire con Giobbe:
“Perisca il giorno in cui nacqui
e la notte in cui si disse:
è concepito un uomo”
(Giobbe 3, 3).
La creazione è stata molto paziente nel sopportare la morte per tante generazioni prima che venisse Lui a spiegare le cose.
Certamente era aiutata dallo Spirito che abitava in essa per avere la forza di attendere perché altrimenti non sarebbe stata capace.
La pazienza di morire fa onore ai fiori, agli uccelli, alle volpi, all’uomo.
Io mi commuovo sempre davanti ad una formica che resta immobile schiacciata dalla mia sbadataggine o davanti a un coniglio che mi guarda con gli occhi vuoti mentre io con un coltello gli ho aperto la gola per preparare il pranzo ai miei fratelli.
Guai se cerco di capire!
Meglio vivere tra le pagine di un libro di favole dove vita e morte si incontrano come cose naturali e senza farci paura.
Anche Giovanni non fa paura quando presenta la morte con l’immagine del chicco di grano che muore.
“In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto”
(Giovanni 12, 24).
L’immagine è talmente viva che ha il potere di distrarti dalla visione di questo piccolo chicco che si disfa nella morte. La tua attenzione viene subito portata a contemplare la meraviglia di ciò che capita dopo: nel sole sono apparsi trenta, quaranta chicchi, frutto di quello morto a cui non pensi più.
Proprio come capita alla donna – ed è sempre di Giovanni il paragone – che “quando deve partorire soffre ma poi dimentica le doglie perché è nato al mondo un uomo” (Giovanni 16,21).
Il Vangelo ci sta preparando alla grande spiegazione del perché del dolore e della morte e ci rivela il mistero nascosto nei secoli, “la vita nasce dalla morte” .
Quando avremo visto spuntata tutta la vita dimenticheremo la paura provata sul cammino della morte.
È inutile nascondercelo. Il Vangelo è escatologico.
Nelle sue tappe intermedie ti lascia col cuore sospeso.
È per questo che solo i bimbi che sanno dare fiducia possono vivere senza morire di paura.
Sì, la vita nasce dalla morte, la resurrezione spunta su una distruzione totale.
Ma a guardarci bene dentro scopriamo una cosa molto importante, direi fondamentale.
La resurrezione non è la riesumazione di un cadavere.
È altra cosa… state tranquilli.
Ve lo immaginate, ad esempio, il vostro corpo giunto, a forza di pillole, e di attenzioni, a 95 anni e che grida con la sua debolezza, la sua bruttezza di scomparire, vederselo ricomparire in piedi tale e quale dopo la resurrezione?
Che disastro!
Se la forza di Dio nella resurrezione fosse quella di riesumare un cadavere, gli direi umilmente ma sinceramente, a proposito del mio: “Signore, per favore, lasciami nella terra e che più nessuno veda la mia faccia”.
Semmai, se proprio vuoi servirti del letame del mio corpo, fagli spuntare sopra un fiore.
E basta!
No, fratelli e anche sorelle… che alla bellezza ci tenete ancora di più… la resurrezione non è la riesumazione di un cadavere anche se bellissimo come lo può essere quello di una bella ragazza che ha avuto la fortuna di morire a venti anni o quello dell’ adolescente amico del Pascoli che il poeta così ricordava sul letto di morte:
“Meglio morire con la testa bionda
che poiché giacque sul guanciale
ti pettinò quei bei capelli ad onda
tua madre, adagio per non farti male”.

C’è qualcun altro che pettinerà i nostri capelli ridotti a lesine dure dalla sofferenza della vita e bagnati dal sudore della nostra morte.
È il Dio della Vita che si avvicina alla nostra morte resa più morte dal tempo, dal peccato, dalle
esperienze del dolore e alitando come la prima volta nella genesi dell’universo ci dirà:
“lo faccio nuove tutte le cose”
e quindi faccio nuovo anche te!
Ti faccio come hai desiderato tu.
Tu desideravi amare e non ci riuscivi: ora ci riuscirai.
Tu volevi la castità e hai pianto sui tuoi fallimenti? Eccoti, ora, ti faccio casto.
Hai sognato di salvare tutti gli uomini e ti sei svegliato ogni giorno umiliato dal tuo egoismo e dalle tue paure: ecco ti faccio capace di comunicare con tutti i poveri dell’universo e di vivere finalmente il dono di te.
La resurrezione non è la riesumazione del mio cadavere. Quello non esiste più come V chicco di grano caduto nella terra.
Esso semmai è solo più il segno di un’ altra cosa che sta spuntando: la memoria di una storia vera, la mia, una continuità nella quale il meglio di me, la coscienza, ha trovato il suo ambiente e ha sviluppato la sua divina realtà a figlio di Dio.
La resurrezione è il trionfo di Dio in noi, la prova della sua potenza creatrice, la capacità di rinnovare tutte le cose.
È straordinario!
Isaia l’aveva profetato:
“Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuove terre.
Non si ricorderà più il passato
non verrà più in mente
poiché si godrà e si gioirà sempre
di quello che sto per creare”
(Isaia 65, 17)

e Giovanni visto coi suoi occhi incantati di amore 
“Io vidi la città santa, la nuova Gerusalemme 
scendere dal cielo da Dio
ed era bella come una sposa
adorna per il suo sposo”
(Atti 21,2).

È questo il mio corpo risorto dai morti, la nuova Gerusalemme che va incontro al suo Dio, i Cieli nuovi di Isaia, la T erra divenuta possesso di Dio.

 I cristiani di oggi stanno riscoprendo la Bibbia.
Hanno capito che
è Parola di Dio, la ricercano come Parola
di Dio, cercano di viverla come Parola di Dio.
La Bibbia
è come una grande carta topografica:
se la leggi, ti orienti.
Essa ti indica il cammino verso la vera patria: Dio.

 Questo è veramente il sogno di domani: la chiesa domestica 
come al tempo dei primi cristiani.

È evidente che è solo possibile quando si è camminato 
parecchio
e la famiglia è permeata di fede profonda
e di immenso rispetto per l’Eucarestia.
Il tempo però è maturo.

‘ideale degli ideali per chi vive in città e nella quotidiana 
“dispersione”
è quello di trovare una comunità di fede
e di preghiera, farsi una comunità di amore,
fondare una comunità Chiesa.
Chi ha questa fortuna
è già a metà del cammino
e molti problemi vengono risolti.
Si annuncia la “parola”, si prega sulla “parola”,
si vive la “parola”. Si diventa “Chiesa”,
si cammina assieme, ci si evangelizza
a vicenda.

 O tu che sei in casa tua
in fondo al mio cuore
fa’ che
ti raggiunga
in fondo al mio cuore.

(Da un canto Talmud)

 E gli va incontro ora.
Questa mia terra divenuta possesso di Dio acquista la capacità contenuta nella Resurrezione di Cristo. E il perché lo possiamo dire. Non diciamo “risorgeremo”, diciamo invece: “Siamo risorti”.
Come l’Incarnazione fa nascere l’Io di Dio nella T erra di Maria che è T erra nostra, così la resurrezione porta in tutta la realtà visibile del Cosmo e della storia la potenza trasformatrice e salvifica della resurrezione di Gesù.
È tutta la realtà che diventa capace di risorgere, di rinnovarsi, di deificarsi.
Dopo la resurrezione di Gesù la storia dell’uomo non può più finire nel caos ma cammina inesorabilmente verso la luce, verso la vita, verso l’amore.
E noi redenti che abbiamo le primizie dello Spirito siamo i primi a testimoniarlo.
È per questo che il Regno è già tra di noi.
È per questo che il Vangelo pur essendo un messaggio escatologico è nello stesso tempo un messaggio” oggi”.
Essendo noi già risorti abbiamo il potere delle cose di lassù, la capacità di vivere le cose impossibili dello Spirito: le Beatitudini.
Basta volerlo.
La potenza della resurrezione di Gesù, la capacità che ha Dio di fare “nuove tutte le cose”, viene trasmessa alla nostra natura di uomini.
D’ora in poi non è più pazzia dire:
Beati i poveri in spirito
Beati gli afflitti
Beati i miti
Beati quelli che hanno fame e sete
Beati i misericordiosi
Beati i puri di cuore
Beati gli operatori di pace
Beati i perseguitati per la giustizia

(Matteo 5,3-10).

Ma diciamolo chiaro: la capacità di vivere le Beatitudini è dovuta alla resurrezione di Cristo. Ed è perché siamo già; risorti in Lui; che lo possiamo fare. Chiamare ;beatitudine; la sofferenza, il pianto, la povertà, la persecuzione non è cosa normale per l’uomo-Adamo.
Solo l’uomo-Gesù poteva pensarlo e viverlo e più tardi comunicarlo come segreto suo.
Ma voi capite che tale segreto -la gioia di essere poveri, la gioia di essere perseguitati, la gioia di essere casti – è di una tale altezza e circondato da una tale delicatezza che solo in un amore non comune può essere vissuto.
E più ancora in una libertà assoluta.
Non può essere imposto.
Come tutti gli assoluti non possono essere imposti ma accettati liberamente nell’ amore.
Dio stesso non ce lo impone ma ce lo propone. E noi dobbiamo fare lo stesso.
Come è possibile per dei cristiani che capiscono il valore della libertà imporre agli altri gli assoluti della povertà o della castità?
lo posso essere entusiasta di una società ordinata come un convento, una società dove tutti vestono alla stessa maniera, mangiano più o meno la stessa quantità di riso e dove tutti condividono i loro beni come mi è parso vedere in Cina.
Però se mi accorgo che questo ordine è imposto – e naturalmente lo è – non lo posso accettare perché distrugge la mia essenza di uomo libero (1).

Io posso essere entusiasta di una Chiesa dove ogni uomo ha la sua moglie e solo quella, dove non esistono divorzi e tutto fila nell’ ordine, ma… non posso imporlo con una legge civile su un piano religioso.
Nemmeno Dio ha imposto il celibato agli uomini o la castità di una sola moglie lo ha proposto. Certo, e lo so che il volere di Dio è per me perfezione e mio bene, ma è solo nella libertà che lo posso realizzare. Senza libertà l’uomo è ucciso nelle sue più profonde essenze.
L’assoluto della castità è cosa talmente alta e legata all’ amore da arrestare Dio stesso sulla soglia del “sì” dell’uomo.
Come sono grossolani certi discorsi sull’unità matrimoniale basata sulla legge e fatti da cristiani che di Gesù ricordano tutto meno che le Beatitudini.

E non è poco!

Il che non vuole dire che non si possa fare il discorso della castità, dell’unità matrimoniale, del rispetto della vita agli uomini di oggi.
Lo posso e lo devo fare. Ma nella sede conveniente.
E se mi appello alla legge civile lo faccio da cittadino che rispetta la molteplicità delle culture e la realtà delle autentiche difficoltà della storia del vivere umano non ancora permeato di Vangelo.
E soprattutto per lasciar liberi tutti non cerco di imporre le mie idee religiose con la forza del numero a chi si appella ad altre culture o chi ha la sventura di non avere la fede.
Ma se mi appello alla divina legge che Gesù ha messo nel mio cuore e per la fedeltà alla quale sono disposto a morire, allora cambio tono e dico:
Fratelli, sorelle!
Dio nel suo figlio Gesù ci ha liberati dall’impero delle tenebre del paganesimo, della permissività, della potenza del denaro, del materialismo occidentale od orientale e ci ha collocati a vivere nel suo Regno di luce e di amore.
Noi non siamo come coloro che non credono alla resurrezione del Cristo e vivono come se le cose invisibili non esistessero.
Per la misericordia di Dio noi crediamo a Gesù risorto dai morti e da Lui attingiamo la forza di vivere su questa terra come Lui ci ha indicato nel Vangelo.
Se gli altri divorziano noi non divorziamo.
Se per debolezza o ignoranza o povertà ci sono delle donne che abortiscono, le nostre donne non abortiscono perché crediamo alla vita.
Per noi l’amore non è abbracciare un corpo ma un dono totale di noi stessi ad una creatura che dobbiamo amare come Dio stesso ci ama, e che non possiamo ingannare in nessun momento.
Questo modo di amare ci impone la castità che non è cosa semplice anzi che è cosa impossibile se non fossimo già “risorti in Cristo”, e se nella preghiera non attingessimo l’aiuto.
Non imponiamo agli altri la castità ma la vogliamo vivere come testimonianza che noi crediamo nel Dio Invisibile che vive in ciascuno di noi e che ci chiama a liberazione e salvezza.
Essere casti significa rispettare il nostro corpo e il corpo degli altri.
Essere casti significa guardare gli altri con occhi di bimbo, credendo che l’amore vero è possibile, che mai verrà meno su questa terra la meraviglia di un giovane e di una giovane capaci di donarsi totalmente, radicalmente, per sempre, come se il loro amore fosse già un pezzo di cielo.
Essere casti significa avere il dominio di sé perché non avvenga che nostro figlio sia frutto di una crapula o di un inganno passionale ma la libera scelta di una paternità o maternità cosciente ed amante che va oltre il corpo e affonda la sua gioia nel mistero stesso di Dio.
Essere casti significa vedere le cose e gli uomini con l’occhio puro di Gesù che nella sua visione messianica volle l’universo intero assorbito nella sfolgorante potenza della resurrezione in cui il
peccato stesso dell’uomo sarebbe stato vinto, distrutto e dimenticato.
E, infine, essere casti significa avere nel cuore il sogno di Maria madre del Cristo e Madre nostra che fu capace nella sua infinita piccolezza e umiltà vivere nello stesso momento e con lo stesso corpo le esigenze della verginità e della maternità.

Da “Il dialogo ” – Periodico di Monteforte Irpinino

IL MUCCHIO COME MITO   (di Aldo Antonelli )

 follaestasi 

«Il mucchio come mito!».
Le adunate in piazza san Pietro? O quelle, sterminate, delle GMG in giro per il mondo? O quelle, affollate ed anche tragiche, che fanno da contorno ai viaggi papali, Africa o non Africa?
Ma anche le ammucchiate dei figuranti alla Fiera di Roma!

Siamo ormai alla celebrazione quantitativa delle cose e delle persone. Non è il sapore dei soldi che interessa, ma il loro ammontare. Non è la voce delle persone che si vuole ascoltare, ma il loro peso numerico.

 

“Il mucchio come mito” è il titolo che riporta un articolo non firmato del numero 17/1953 della rivista “Adesso” di don Primo Mazzolari. Molto probabilmente (lo si vede anche dallo stile) è di don Mazzolari stesso.
Nel mese di settembre del 1953, nella stessa domenica, un milione di cattolici si erano radunati a Torino per il Congresso Eucaristico, oltre settecentomila a Milano per la festa dell'”Unità” e duecentomila a Spalato per ascoltare Tito…
Don Primo che fa?
Prende la penna e scrive:

Questo il bilancio di una qualunque domenica del settembre 1953.
Non ne siamo stupiti, ma non siamo contenti, anche se il Congresso di Torino batte il record.
Appunto perché noi cattolici siamo ancora davanti in questa gara di mobilitazione delle masse, noi per primi non possiamo essere contenti dell’andazzo.
Le moltitudini non ci fanno paura: ci fa paura la fiducia che esse portano dietro e che ispirano alle loro guide. È una fiducia che, secondo me, contrasta con le regole dello spirito e s’avvicina a quelle del materialismo.
Il materialismo, infatti, s’insinua,e fa capolino da ogni dove, e il fasto, il rumore, la quantità ne sono gli araldi. La tecnica poi, che fa muovere genti e suoni, senza fatica ma non senza spesa, e che dispone di ritrovati incantatori, che distraggono invece di raccogliere, eccitano invece di purificare, si è messa volentieri a servizio di questo spirito di massa.
Per rimanere un attimo in casa nostra, penso che molti credenti troveranno un pò arduo portare come motivo di massa certi sublimi Misteri, che un tempo venivano circondati da gelose e arcane iniziazioni.
Non vorrei essere frainteso. Io non contesto il diritto di esprimere la propria fede e di esternare la propria adorazione, e neppure di sottrarre il popolo cristiano al dovere di fare ciò che gli altri fanno, e che potrebbe rappresentare un ‘”aggiornamento d’apostolato”. Mi permetto soltanto di chiedere se noi cattolici possiamo metterci in questo piano di gara che ci porta fatalmente all’esaltazione dei valori di massa.
Questo stare insieme a quel modo per un’ora, per una giornata, questo affiancarsi e pigiarsi assomiglia al quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum?
Non tutto quello che gli altri fanno è bene fare: non tutti i diritti sono usabili per chi guarda oltre il diritto.
In certi favolosi ammassamenti di qualsiasi genere, si ha l’impressione che il motivo centrale divenga piuttosto un pretesto per uno spiegamento di forze o per un torneo oratorio, che deve per forza sfociare nella retorica.
Lamentiamo il disamoramento del quotidiano, si chiami esso parrocchia, casa, ecc., e siamo noi che ne deformiamo il gusto con questa incessante mobilitazione verso lo straordinario e lo sbalorditivo.
Ma il fatto di questa strutturazione di massa investe in pieno il problema dell’educazione del popolo e il progressivo svuotamento dell’uomo. La personalità sta diventando una larva, e un pò anche per colpa nostra, nonostante il daffare verbale per difenderla e consolidarla.
Ieri avevano ragione i più grossi portafogli: oggi, hanno ragione le masse più grosse, i mucchi più grossi.
Non abbiamo fatto molta strada e neppur cambiato strada. Prepotenza del danaro o sopraffazione del numero, se non è zuppa è pan bagnato: una strada cioè che ci dispensa dall’essere ragionevoli e dal rispettare tanto coloro che sono senza soldi come coloro che sono in pochi.
Senz’accorgersene, il mucchio diventa il mito: ed esso va accresciuto e difeso ad ogni costo. E chi fa parte del mucchio s’abitua a non esistere, a non parlare, a non agire se non come mucchio.
La democrazia del mucchio non è la democrazia: come non è la religione la religione del mucchio.Il mucchio è falange, legione, rullo compressore, non comunità; elemento di urto, non comunione.
Le masse, come i blocchi non si cercano se non per sfidarsi, urtarsi, annientarsi. Dietro. un ordinamento politico di masse o di blocchi, non c’è che la guerra.
Il pericolo della massa è avvertito purtroppo anche da pochi cristiani, i quali trovano più facile ammucchiare che educare, sbalordire più che elevare.
Cristo è venuto a liberare l’uomo da ogni schiavitù, anche dalla schiavitù della massa.

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