Tirisan
accenno retorico ma giustificato nel finale, mette in luce l’umanitàdei religiosi, nei quali alberga l’umanissima paura ma anche un amore incrollabile in Cristo e nel loro prossimo.
Scrive Mons mons. Henri Teissier, arcivescovo di Algeri al tempo del rapimento e poi dell’uccisione dei monaci di Tibhirine.
«Ha suscitato in me profonda meraviglia» perché è «una scelta nata da dei professionisti del cinema, senza committenza da parte della Chiesa o di un’istituzione cristiana. In più è arrivato a Cannes per i normali canali della produzione cinematografica. Ha ottenuto il premio speciale della giuria e, sulla scia di questo, il premio del Ministero per l’istruzione, oltre al premio della giuria ecumenica
Racconta la vicenda reale di otto monaci cistercensi francesi che vivono in armonia con la popolazione musulmana, partecipando attivamente alla vita della comunità.
Il monastero trappista (perfettamente integrato in terra mussulmana), affondava le sue radici e la sua ragion d’essere nella dimensione contemplativa, ma era al tempo stesso un riferimento per la popolazione del posto e in special modo per i contadini, con cui i monaci avevano stretto relazioni feconde, attraverso la creazione di una cooperativa, l’assistenza medica offerta dal loro dispensario, il lavoro con le donne.
Recitavano insieme passi del Corano testimoniando con la propria vita un amore per l’umanità che va oltre le barriere culturali e religiose.
Il monastero nel corso dei decenni si spogliò delle sue ricchezze, con la gente del villaggio nacque una grande fiducia, tanto che quattordici anni dopo i fatti del 1996 al monastero non è sparito un chiodo, tutto è stato rispettato.
Ma in Algeria, dall’inizio degli anni Novanta, i gruppi islamici armati seminano il terrore sgozzando civili e chiunque si opponga alla Repubblica islamica. Anche gli otto monaci sono in pericolo. Tanto che la polizia propone di sorvegliarli e anche dalla Francia arriva l’ordine di tornarsene in patria. Ma loro rifiutano entrambe le cose. Perciò, inermi, resteranno a Tibhirine dove verranno rapiti e uccisi barbaramente. Da chi, esattamente, non è dato sapere. Perché il fatto di cronaca – avvenuto nel 1996 e da cui è tratto il film – è ancora oggi irrisolto e sono molte le piste aperte.
Scriveva così padre Christian de Chergé pochi giorni prima di essere rapito e ucciso: “Se un giorno mi capitasse, e potrebbe essere oggi, di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere attualmente tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia vita è stata donata a Dio e a questo Paese”.
E ‘ un film che consigliamo di vedere.
Accanto a questo post , a sinistra il Trailer del film e a destra un PPT dove si vedono nella semplicità di foto originali i martiri di Tubhirine . Nelle diapositive Sono stati associati, ai “sette dormienti di Efeso”, martiri cristiani murati in una grotta e che sarebbero risuscitati circa due secoli dopo. Quello che è interessante è che sono venerati sia dai cristiani che dai musulmani (ne parla il Corano).
Don Franco Mogavero , 41 anni, è presbitero dal 1998.
Specialista in comunicazioni sociali ha insegnato giornalismo presso la Pontificia Università Gregoriana ( dove ha conseguito la specializzazione ). Attualmente insegna comunicazioni sociali presso la facoltà teologica di Sicilia “S. Giovanni Evangelista”.
Lascia, con profondo rimpianto dei cittadini, la parrocchia di Scillato dove è stato apprezzato, stimato ed amato.
A Don Franco ci lega un cammino di quasi quattro anni, nel corso del quale siamo stati introdotti alla lettura continuata della Parola seguendo il calendario della Piccola Famiglia dell’Annunziata di Monte Sole alla quale siamo “uniti ” , grazie alla sua“ mediazione “ .
A testimonianza di questa comunione la presenza, alla celebrazione, di Suor Anita, della comunità di Modena, chiamata da Don Franco a fare da testimone, nonché l’annuncio di proporre alla comunità di Collesano l’esperienza della lettura continuata.
Non stiamo qui a fare la cronaca di una celebrazione che spesso ci ha fatto cogliere le lacrime di commozione di Franco mentre scorrevano i numerosi e sinceri apprezzamenti per la sua umiltà, la sua cultura, il suo desiderio di autenticità, la sua forza nell’affrontare terribili tragedie che mai hanno scalfito la sua fede e il suo abbandono a Dio, del quale sa bene di non aver ricevuto peso più grande di quello che avrebbe potuto “ sopportare “.
Vorremo solo dire che tutta la celebrazione è stata pervasa da gioia vera, speranza di novità nello spirito di una continuità instancabilmente in divenire , desiderio autentico di collaborazione tra comunità ecclesiale e comunità civile per una rinascita di tutta Collesano.
Significative le parole del Vescovo nel sottolineare come le separazioni di un presbitero dalla sua comunità sono sempre dolorose (“meraviglia sarebbe se non fosse così !” ) ma vanno vissute nella convinzione profonda che il succedersi di sacerdoti non inficia la continuità di un cammino pastorale ma lo arricchisce per la diversità di carismi che ogni singola persona irrepetibilmente ha, pur non essendo, la singola persona, indispensabile per la continuità del cammino.
Delicato, sincero il saluto del Sindaco di Collesano.
Toccanti le parole del vecchio parroco, Don Angelo Onorato, “muto per 12 anni” ma ora irrefrenabilmente loquace nel manifestare la gioia per una vocazione, quella di Franco, nata e cresciuta nel corso del suo “ parrocato” . Tra le cose dette, l’invito al vescovo a continuare la strada del “turnover” dei parroci con oltre 9 anni di permanenza in una parrocchia al fine di adempiere a quanto prescritto dal diritto canonico nell’obiettivo di donare plurarità di carismi alle varie comunità.
Intriganti le parole del rappresentante della comunità che, dopo aver tracciato tutto il percorso vocazionale e ministeriale di Don Franco, lo invitava ad intervenire nella locale situazione politica “litigiosa”.
L’adorazione in preghiera davanti l’altare del Sacramento, l’acqua , il fonte battesimale, i rintocchi della campana, il confessionile, questi i segni esplicitati nella parte iniziale della celebrazione. Ma noi siamo sicuri che Franco continuerà ad esser icona dell’altro segno fondamentale che Gesù ci ha lasciato: cingersi il grembiule, chinarsi, lavare i piedi e asciugarli.
In tutta la celebrazione, poi, il profumo di una presenza impercettibile ma immancabile: quella di Giacomo, fratello di Franco prematuramente scomparso.
Lo ha invocato il Vescovo, lo ha invocato Franco quando, a termine della celebrazione, si è affidato a Dio, al Vescovo e a Giacomo.
[il sole 24ore.]“Anche ad un’osservazione superficiale appare evidente come per parecchi secoli in tutta l’Italia nessun uomo abbia goduto di un amore e di un ossequio così smisurati come il modesto ed umile Francesco… Il divino messaggio, tenero e beato, che era giunto sulla terra sotto forma di lui, non si spense con la sua morte. Egli aveva sparso a piene mani un buon seme, e quel seme germogliò e crebbe e fiorì”.
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Queste parole di Hermann Hesse, (l’autore di Siddharta, di Narciso e Boccadoro e di tanti altri celebri testi, oltre che di una deliziosa vita di Francesco d’Assisi scritta in gioventù (1904),) suscitano la domanda sul perché Francesco abbia lasciato una così profonda impronta nel cuore degli Italiani e di tante donne e uomini di ogni latitudine e cultura.
La risposta di Hesse – dal tono piuttosto sentimentale e romantico – contiene un nocciolo prezioso di verità: “Soltanto pochi [come Francesco], in virtù della profondità e dell’ardore del loro intimo, hanno donato ai popoli, quali messaggeri e seminatori divini, parole e pensieri di eternità e dell’antichissimo anelito umano… sì che quali astri beati si librano ancora sopra di noi nel puro firmamento, dorati e sorridenti, benevole guide al peregrinare degli uomini nelle tenebre”.
Per Hermann Hesse Francesco incarna un messaggio capace di dare ragioni di vita e di speranza al cuore di tutti. Anche a quello dell’Italia d’oggi, scossa da una crisi che, prima che economica e politica, è spirituale e morale.
Nel tentativo di cogliere questo messaggio, motivando così anche la mia scelta di San Francesco quale “personaggio che potrebbe risolvere la crisi del nostro Paese”, mi è venuto in aiuto un testimone singolare.
Sul tratto autostradale che collega Roma a Chieti, fra i più belli d’Italia per paesaggi e colori, a metà circa della piana del Fùcino, su un colle che un tempo si specchiava nel lago, dominato dall’imponente castello medioevale, sorge Celano, patria del beato Tommaso, seguace e primo biografo di Francesco, che a Celano presumibilmente passò intorno al 1220.
Nella Vita prima di San Francesco d’Assisi, scritta su incarico di Gregorio IX quale “Legenda” ufficiale per la canonizzazione del Santo e presentata al Papa il 25 febbraio 1229, Tommaso narra con incantevole freschezza la vicenda di Francesco sin dai suoi inizi.
Colpisce anzitutto la presentazione del tempo antecedente la conversione: “Viveva ad Assisi, nella valle spoletana, un uomo di nome Francesco. Dai genitori ricevette fin dall’infanzia una cattiva educazione, ispirata alle vanità del mondo. Imitando i loro esempi, egli stesso divenne ancor più leggero e vanitoso”.
Il giovane Francesco è veramente uno di noi, così simile a noi nella leggerezza della vita e dei sogni. Tuttavia, è proprio l’aver vissuto questa stagione dell’utopia, impastata delle fughe in avanti dei desideri e delle pretese, che rende Francesco così largamente umano. È quanto esprime la folgorante risposta di Mark Twain alla domanda su dove avrebbe voluto andare dopo la morte: “In paradiso per il clima, all’inferno per la compagnia…”: come a dire che i peccatori suscitano un’immediata simpatia perché li sentiamo a noi familiari, anche se non può non attrarci la bellezza del cielo…
Francesco ci parla anzitutto perché parte da quello che ci accomuna tutti: la nostra fragilità, la lista più o meno lunga dei nostri difetti, di cui alcuni – ambizioni, vanità, ricerca dell’immagine a prezzo della verità, dipendenza dagli indici di gradimento, leggerezza nel mantener fede agli impegni – ci appaiono così drammaticamente attuali!
Avviene però nella vita del giovane di Assisi qualcosa di nuovo e imprevisto: Tommaso da Celano lo narra col tratto tenerissimo di una lettura guidata dagli occhi della fede: “Ma la mano del Signore si posò su di lui e la destra dell’Altissimo lo trasformò, perché, per suo mezzo, i peccatori ritrovassero la speranza di rivivere alla grazia, e restasse per tutti un esempio di conversione a Dio”.
Al di là di queste poche righe, che già aprono uno squarcio sullo sterminato futuro, i fatti ebbero una serrata consequenzialità:
“Colpito da una lunga malattia, egli cominciò a cambiare il suo mondo interiore… non tuttavia in modo perfetto e reale, perché non era ancora libero dai lacci della vanità… Francesco cercava ancora di sottrarsi dalla mano divina, accarezzava pensieri terreni, sognava ancora grandi imprese per la gloria vana del mondo”.
L’occasione del cambiamento fu di quelle che solleticano anzitutto le ambizioni e proprio così espongono alle delusioni più cocenti:
“Un cavaliere di Assisi stava allora organizzando preparativi militari verso le Puglie…Saputo questo, Francesco trattò per arruolarsi… Ma, la mattina in cui doveva partire, intuì che la sua scelta era erronea rispetto al progetto che Dio aveva per lui…”
. Francesco rinuncia alla spedizione e sceglie di conformare la sua volontà a quella divina:
“Si apparta un poco dal tumulto del mondo, e cerca di custodire Gesù Cristo nell’intimità del cuore… appronta un cavallo, monta in sella e, portando con sé i panni di scarlatto, parte veloce per Foligno. Ivi vende tutta la merce e con un colpo di fortuna anche il cavallo!”.
È il “no” al passato: non ancora, tuttavia, è chiaro a che cosa dovrà dire il suo “sì”.
“Sul cammino del ritorno, libero da ogni peso, va pensando all’opera cui destinare quel denaro… Avvicinandosi ad Assisi, s’imbatte in una chiesa molto antica, fabbricata sul bordo della strada e dedicata a San Damiano, in rovina… Vedendola in quella miseranda condizione, si sente stringere il cuore. Incontrandovi un povero sacerdote, con grande fede, gli bacia le mani consacrate, e gli offre il denaro… rimanendo a vivere con lui”.
Ciò che è avvenuto all’interno del cuore non può non manifestarsi all’esterno: si prepara la sfida più dura, l’incomprensione e il giudizio dei suoi.
“Suo padre venne a conoscenza che egli dimorava in quel luogo e viveva in quella maniera. Profondamente addolorato radunò vicini e amici e corse a prenderlo e lo rinchiuse in una fossa che era sotto la casa ove rimase per un mese intero… Francesco con calde lacrime implorava Dio che lo liberasse… Affari urgenti costrinsero il padre ad assentarsi per un po’ di tempo da casa… Allora la madre, rimasta sola con lui, disapprovando il metodo del marito, parlò con tenerezza al figlio; ma s’accorse che niente poteva dissuaderlo dalla sua scelta. E l’amore materno fu più forte di lei stessa: ne sciolse i legami lasciandolo in libertà”.
Emerge qui una costante della vita di Francesco: il ruolo della donna nella sua esistenza.
Dapprima, la Madre, tanto tenera, quanto capace di capire. Quindi, Chiara, sorella nell’amore per Cristo e discepola fedelissima.
Sempre la Madre di Dio, custode del suo cuore.
“Frattanto il padre rincasa, e visto ogni vano tentativo per distoglierlo dal nuovo cammino, rivolge il suo interesse a farsi restituire il denaro… Allora, impose al figlio di seguirlo davanti al vescovo della città, affinché facesse davanti al prelato la rinuncia e la restituzione completa di quanto possedeva. Francesco non esita per nessun motivo: senza dire o aspettare parole, si toglie le vesti e le getta tra le braccia di suo padre, restando nudo di fronte a tutti”.
Si rivela qui il tratto che rende Francesco fratello universale: la rinuncia a ogni possesso e a ogni potere, il suo essere nudo e indifeso. Non si tratta solo di una scelta di sobrietà, pur così importante e necessaria allora come oggi: è una logica che appare sovversiva rispetto agli arrivismi ed alle avidità di questo mondo. Non è l’ “audience” che conta, né il successo o il denaro, ma la nuda verità di ciò che siamo davanti a Dio e per gli altri! Ed è proprio questa libertà dell’essenziale che lo avvicina a tutti e lo rende inquietante per tutti!
Nel tempo in cui sta a San Damiano, Francesco prega intensamente. Il Crocifisso che è in quella chiesa gli parla: “Va e ripara la mia casa”.
In un primo momento Francesco pensa di dover riparare la chiesetta dove si trova; capisce, poi, che Gesù si riferiva alla Chiesa tutta intera, che attraversava un periodo contrassegnato da mondanità e prove. Riportare la Chiesa agli insegnamenti del Vangelo, liberarla dalla seduzione delle ricchezze e del potere, riavvicinarla ai poveri è la missione di cui si sente investito.
Comincia la sua nuova vita:
“Si reca tra i lebbrosi e vive con essi per servirli in ogni necessità per amor di Dio. Lava i loro corpi e ne cura le piaghe… La vista dei lebbrosi gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva in lontananza i loro ricoveri, si turava il naso. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell’Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso e fece violenza a sé stesso, gli si avvicinò e lo baciò”.
Il suo modo di vivere a servizio di Dio cominciò ad affascinare i giovani di Assisi, al punto che vari di loro lo seguirono per servire il Signore.
Nei rapporti con gli altri, Francesco segue una regola precisa: “Chi non ama un solo uomo sulla terra al punto da perdonargli tutto, non ama Dio”
. Proprio così comincia a dare fastidio:
“I potenti di Assisi si videro la loro cittadina svuotata per via di Francesco e, in un momento in cui egli ed i suoi confratelli erano in giro per la questua, alcuni uomini di Assisi saccheggiarono la chiesa di San Damiano uccidendo un poverello che dimorava in quel luogo. Al ritorno, Francesco fu scosso da profondo dolore al punto da pensare di dover andare dal Papa in persona per chiedere se la via che aveva intrapreso per seguire il Cristo fosse errata. Dall’incontro con il Papa, non fu Francesco ad uscirne con consigli ed ammonimenti, ma furono tutti, il Papa Innocenzo III compreso, a sentirsi umiliati dalla povertà ed obbedienza di quest’uomo. Da questo momento tutta la Chiesa fu rinnovata: c’era finalmente qualcuno che riportasse i poveri a Cristo”.
Francesco si mette alla scuola di Gesù Crocifisso e impara l’umiltà: anche in questo la provocazione che lancia al nostro presente è bruciante:
“Un frate chiede a Francesco: ‘Padre, cosa ne pensi di te stesso?’ ed egli rispose: ‘Mi sembra di essere il più grande peccatore, perché se Dio avesse usata tanta misericordia con qualche scellerato, sarebbe dieci volte migliore di me’ ”.
Lo spogliamento di sé caratterizzerà sempre più il suo cammino: nella Vita seconda di S. Francesco, che Tommaso da Celano stende tra il 1246/1247 per corrispondere all’ingiunzione del Capitolo generale di Genova “di scrivere i fatti e persino le parole” di Francesco, questo aspetto emerge in modo impressionante.
“L’ardore del desiderio lo rapiva in Dio e un tenero sentimento di compassione lo trasformava in Colui che volle essere crocifisso. Un mattino, mentre pregava sul fianco del monte, vide la figura come di un serafino, con sei ali tanto luminose quanto infuocate, discendere dalla sublimità dei cieli: esso con rapidissimo volo, giunse vicino all’uomo di Dio, e allora apparve l’effige di un uomo crocifisso, che aveva mani e piedi stesi e confitti sulla croce…Il vederlo confitto in croce gli trapassava l’anima… L’amico di Cristo, stava per essere trasformato tutto nel ritratto visibile di Cristo Gesù crocifisso… Così il verace amore di Cristo aveva trasformato l’amante nella immagine stessa dell’Amato”.
Gli occhi di Francesco si chiuderanno presto alla luce del mondo: ma la luce della Sua fede e del Suo amore umile continuerà a risplendere.
Non fu la Sua una fuga dal mondo.
Se non avesse amato profondamente questa terra, non avrebbe composto il Cantico delle creature.
La sua è anche una spiritualità del rispetto e dell’amore del creato.
Tutto in Francesco fu motivato dall’aver compreso qual è la perla preziosa da cercare ad ogni costo: sobrietà, povertà, tenerissima carità, umiltà, rispetto per ogni creatura e per tutto il creato sono volti di quest’unico amore.
E non è di esso che ha bisogno anche l’Italia di oggi, come quella del suo tempo e il mondo intero con lei?
“Quando infine si furono compiuti in lui tutti i misteri, quell’anima santissima, sciolta dal corpo, fu sommersa nell’abisso della chiarità divina e l’uomo beato s’addormentò nel Signore. Uno dei suoi frati e discepoli vide quell’anima beata, in forma di stella fulgentissima, sollevarsi su una candida nuvola al di sopra di molte acque e penetrare diritta in cielo: nitidissima per il candore della santità eccelsa e ricolma di celeste sapienza e di grazia per le quali il santo meritò di entrare nel luogo della luce e della pace, dove con Cristo riposa senza fine”.
E parla a chiunque voglia ascoltarlo…
promesse fatte da Don Santino al momento dell’ordinazione sacerdotale.
Rinnovata, tra l’altro, la promessa di obbedienza al vescovo e ai suoi successori, precisato il mandato di parroco per nove anni col ruolo di coordinatore delle altre due comunità parrocchiali.
Molto belli i momenti in cui Don Santino ha asperso l’altare e il popolo; ancora più toccante il “ ritorno” al fonte battesimale, dove ha sostato in preghiera.
Poi la presentazione della comunità da parte della Prof.sa Sottile che ha espresso sentimenti di gioia e trepidazione nello stesso tempo, “ ci sentiamo come sospesi ..” ha detto in questo passaggio, grati a P. Antonino, fiduciosi che Don Santino possa completare , arricchire quanto la comunità esprime.
Poi la richiesta chiara ( accompagnata da lungo e scrosciante applauso ) affinché il vice parroco Don Saverio possa restare; successivamente,il vescovo chiarirà l’impossibilità ad esaudire tale richiesta.
Nell’omelia il vescovo ( che “ per la legge del contrappasso” è stato brevissimo ) ha disegnato i tratti di Don Santino: persona amabile, zelante, profonda, determinata, capace di guidare una comunità avendo come obiettivo quello di condurre tutti al Padre. Tra le altre cose ha definito la giornata odierna “ evento di Grazia che diventa evento di storia “.
Da un Don Santino parole semplici, un ricordo affettuoso del compianto arciprete Cipolla e l’impegno a lavorare per una pastorale della famiglia